domenica 6 dicembre 2009

Note a freddo - e quindi non emotive - sulla sentenza sul Crocifisso

Una importante chiave di volta, cui si affidano la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Affaire Lautsi c. Italie, 3 novembre 2009, n. 30814/06, e la letteratura ecclesiasticistica e costituzionalistica anticattolica italiana che l'ha ispirata (è da pensare, attraverso il giudice Vladimiro Zagrebelsky), è inconsistente.
La leva, di carattere teorico extragiuridico, che ha operato anche nella sentenza della Corte CEDU, è non tanto, o non solo, la separazione tra religione (confessioni religiose) e sfera pubblica statuale, distinzione banale, ma quella tra cultura e religione. Si argomenta a più riprese nel testo, seppure un poco à batons rompus: se la croce è cultura, allora una ratio meramente civile della sua ostensione è offensiva per la religione cristiana (dimostra che essa è ormai solo "cultura"); se la croce è religione, allora essa è simbolo confessionale, inevitabilmente di una confessione, e come tale è la sua presenza negli ambienti scolastici è lesiva della laicità dello stato. E anche: o il Crocifisso è "cultura" europea contemporanea, e non ha più rapporto con ciò che è esso è stato (radici cristiane), ponendosi così sotto l’esclusiva competenza dei poteri dello stato, o è vero simbolo religioso, e allora è lesivo del diritto individuale alla neutralità religiosa degli spazi pubblici.
Vi sono nell’argomento due errori complementari. Sul primo: religione e cultura non sono universi separati, propriamente neppure distinti. Antropologicamente la religione è parte costitutiva del sistema cultura; questo significa che la religione è cultura, non meno che: la cultura è religione. Un tale enunciato appartiene al linguaggio fenomenogico, e non ha alcuna implicazione secolaristica. Se la cultura è religione, un simbolo religioso millenario, e di rilevanza culturale assiale, è per se stesso culturale e religioso, inscindibilmente. Affermare il carattere culturale del Crocifisso è affermarne la portata civilizzante come simbolo religioso e la portata religiosa culturamente radicata.
Sul secondo: il tratto religioso-culturale del crocifisso è più che confessionale. (Osservo che, nonostante “confessione” abbia notoriamente un valore tecnico restrittivo, il termine è adottato surrettiziamente come sinonimo di religione da molti giuristi e giudici.) In effetti, le confessioni e le comunità cristiane che non lo adottano come segno nella vita pubblica del gruppo, operano sulla Tradizione "a levare"; riduttivamente, dunque, sul patrimonio teologico e su quello civilizzazionale del Cristianesimo. Non sorprende che nel fondo della cultura (pre)giuridica nordeuropea vi siano residui di dualismo protestante liberale. Ma questo fondo, minoritario ed elitario nel quadro cattolico italiano, appare alla nostra ricezione subito stridente, e implausibile. E abbiamo ragione a giudicarlo tale, sul terreno teorico, anzitutto.
Una minima chiarificazione del rapporto religione-cultura indica, dunque, che il simbolo religioso è culturale perché religioso, e (nella prospettiva antropologica) è religioso in quanto è umana cultura, non una straniante alterità (o intimità) meta-culturale. Che cultura e religione (quindi cultura e fede) non siano sfere segnate tra loro da incommensurabilità, è un dato fondamentale, sempre conosciuto e argomentato dalla tradizione apologetica cristiana. Non sarebbero stati pensabili, altrimenti, degli argomenti di comune ragione ed esperienza per accompagnare l'anima fino alla soglia tra credibilità e fede. L'approfondimento novecentesco dell'alterità del Cristo della fede ha finito col negare, spesso poco consapevolmente, l’evidenza che la Rivelazione è prima dell’assenso di fede (fides quā); essa si rivolge agli uomini perché credano (quindi non ancora credenti) ad un annuncio preciso e decisivo, la fides quae, e lo estendano e conservino al mondo. L'assenso è, per ciò, alla portata di ogni uomo-cultura. Così anche la simbolica cristiana (forme, icone, ma anche enunciati essenziali) è destinata ad ogni uomo, alla sua perfezione.
La dialettica tra fede come conquista umana e fede come dono (in e per Cristo) è, come sappiamo, la forza della teologia cristiana. Questa prospettiva, umanamente ricchissima quanto cristianamente irrinunciabile, appare di difficile comprensione, oggi, per laici e per credenti. Una deriva spiritualizzante vuole la fede destinata alla “intimità della propria coscienza”. Il Cattolicesimo per essenza si oppone a questi lenocini, anche se ne è tentato. Intanto la deriva permette l’occupazione dello spazio pubblico (laicamente neutralizzato) da parte di valori anticristiani.
Dunque: il Crocifisso è cultura in quanto opera religiosamente nell'uomo-cultura. Rende "visibile" il Cristo della fede oltre l'orizzonte della credenza individuale e della comunità orante. Ricorda così l’integrità, l’intero umano, il plesso cultura-religione in cui e per cui esistiamo; in sé poco rilevante se come ogni simbolo, ogni "testo" simbolico, il Crocifisso possa contingentemente essere visto ma non essere letto, essere letto senza essere compreso.
Confessionale e particolaristica non è la permanenza della presenza/ostensione pubblica del Crocifisso; lo è, piuttosto, il suo nascondimento, l’aniconismo secolarizzante delle comunità cristiane che fanno esibizione di laicità. L'argomento cattolico, e di diversi giuristi, nella discussione sulla sentenza, dell’universalità significativa e assiologia del Crocifisso è importante, perché contrasta l’irriflesso clima "separatista" degli ultimi decenni.
Voci cattoliche sottolineano la laicità del Crocifisso-immagine e, nuovamente, il suo carattere educativo. Col richiamo alla laicità si intende dire che il Crocifisso significa anche per chi non partecipa della fede nella forma personale (la fides qua), cioè per ogni uomo. Non amo l’uso di laico/laicità per indicare il senso comune, le condotte e credenze razionali condivise, magari la scienza (moderna). E non lo raccomanderei alla cultura cattolica. Se appaiono, oggi, funzionali alla polemica con il laicismo, laico/laicità rappresentano un campo semantico compromesso, che attrae e integra nei suoi significati originari (ottocenteschi: laïcité compare attorno al 1870) quanto di nuovo vi si immette. Preferibile definire il Crocifisso, piuttosto che “laico”, universale nel senso che universale è la sua chiamata e universalistica la portata di questa chiamata.
Difendo, invece, l’affermazione della vitale portata educativa del messaggio di Gesù, dalle Beatitudini alla Croce redentrice. Tema che era stato l’asse dei due ultimi secoli dell’apologetica cristiana, precipitosamente abbandonata dalla cultura cattolica postconciliare. Interessante quanto sia invece di nuovo condiviso: l’educazione è costitutiva dell’azione della Chiesa, e ci si attende (universalmente e da sempre, con eccezioni rade e patologiche, verrebbe da aggiungere) che essa educhi. “Fin dall’inizio, infatti, spinta dalla sua sollecitudine per l’uomo, ha esercitato una particolare vocazione educativa nei confronti delle persone, delle famiglie, di intere popolazioni. ‘L’uomo è la via della Chiesa’ (…) [Per questo] non può non essere interessata alla formazione del soggetto umano”, oltre i confini e i termini del proprio immediato insegnare (card. C. Ruini, Prefazione a La sfida educativa. A cura del Comitato per il Progetto Culturale della CEI, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. IX-X). La sollecitudine della chiesa per la presenza del Crocifisso nelle scuole pubbliche è un momento della più vasta, non rinunciabile, sollecitudine per l’uomo.
La significatività del Crocifisso erga omnes e pro omnibus è, comunque la si guardi, profonda ed essenziale; costantemente pone cristianesimo e umanità sul decisivo terreno del discorso di Paolo all'Areopago (Atti 17. 16-33, 30-31). “Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. (…) Dio passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto di convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti la prova sicura col risuscitarlo dai morti”.
Le culture cattoliche e laiche che hanno delineato sulle radici cristiane la nuova identità conservatrice-liberale dell’alleanza che oggi governa in Italia, non possono distrarsi da questo paradigma. Vi è un significato di alta politica, oggi, nel “guardare al Crocifisso” (titolo di un piccolo, prezioso volume di Joseph Ratzinger del 1984, in it. 1992). Esso vieta di prendere posizione su arretrate linee di laicizzazione credendo di farsi moderni e, peggio, di guidare così le giovani generazioni.


Pietro De Marco
© Copyright L'Occidentale, 6 dicembre 2009

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