venerdì 31 dicembre 2010

Hypocritae

Dixerunt in corde suo cognatio eorum simul: Quiescere faciamus omnes dies festos Dei a terra

Il Salmo 73 - che suggerisco di leggere per intero - è chiarissimo, ed è di monito anche per noi. E per quanti vanno in sollucchero per quattro piume sul capo dello sciamano, per la Menorah del Giudeo, per il Ramadàn del Maomettano, per le trombe dei Tibetani, financo per le prolisse liturgie degli Eterodossi, ma che guardano con orrore e disprezzo la tiara del Papa, la magnificenza dei nostri Riti millenari, la perfetta sacralità del latino, lo strepitus del Venerdì Santo, le strofe di Noi vogliam Dio.

Un popolo che rinnega i padri, gli antenati, i Martiri, i Santi, la propria storia, le antiche radici che futuro può avere? E con che diritto, dopo aver osannato la blasfema laicità dello stato e indottrinato i politici cattolici a rinnegare la Regalità sociale di Cristo in nome della dignità umana e della libertà di religione, con che diritto pretende dai figli della vedova e dai loro accoliti di veder riconosciute le feste cristiane? Per folklore?

L'ipocrisia della chiesa riformata, che ha in odio il principio monarchico che la informa e si prostituisce all'idea pseudodemocratica della Massoneria, che freme di perverso piacere al solo nominare la solidarietà che è parodia infernale della Carità cristiana, si merita di veder cancellati omnes dies festos Dei. E' essa stessa che l'ha voluto, quando ha fatto di tutto per togliere dalle Nazioni cristiane le leggi che riconoscevano nel Cattolicesimo la Religione di Stato. Sono stati i suoi Pontefici a provocare le premesse di questi eventi odierni, quando hanno elogiato quel libera Chiesa in libero Stato che Pio IX aveva condannato nel Sillabo, quando hanno relegato in un'oscura cripta il Tabernacolo per accogliere nel tempio di Dio il pantheon ecumenico.

Se l'Europa si ricordasse del Natale, della Pasqua, dell'Ascensione e fin delle Tempora, a che servirebbe, se non per mascherare d'ipocrisia lo sfacelo postconciliare? Se le Nazioni devono essere laiche, dev'esserlo anche l'organismo che le riunisce. Se Cristo non ha il diritto di regnare sui singoli Stati, perché l'Unione Europea dovrebbe celebrarne la Nascita, la Passione, la Risurrezione?

Messori si lamenta dell'abbandono delle antiche tradizioni cristiane del nostro popolo. Ma dimentica che la loro scomparsa non è stata voluta dai fedeli, né da quanti non sono Cattolici né Cristiani: è la chiesa riformata, la sinagoga conciliare, che ha cancellato con un'opera meticolosa il latino, il gregoriano che il popolo sapeva a memoria, le Tempora, i digiuni, le Vigilie, i canti popolari, le melodie di Perosi, i Vespri della domenica, le adorazioni eucaristiche, le benedizioni, le processioni, il composto decoro della liturgia funebre, l'abito sacerdotale, il venerdì di magro, la penitenza. L'orgoglio stesso di esser Cristiani.

Era trionfalismo, dicevano i soloni del Concilio. La Chiesa doveva rinunciarvi per far propria una liturgia protestantizzata, resa ancor più sciatta dall'ignoranza e dalla trascuratezza di un clero demotivato e senza ideali. Doveva irridere ed emarginare il chierico con la veste, esaltando il prete operaio e il ribelle in abito civile. Doveva dismettere il manto regale e la corona, per rivestire i panni della serva, quando non le sconce vesti della meretrice o della mezzana. Doveva rimanere nascosta nelle sacrestie a sproloquiare di Lumen gentium, lasciando ai sindacati comunisti, ai partiti laicisti, ai divorzisti, agli abortisti, agli studenti sfaccendati il diritto di manifestare nelle piazze. Doveva togliere il velo alle donne, in nome di una fraintesa dignità su cui San Paolo avrebbe lanciato l'anatema. Doveva tacere la propria santa dottrina, lasciando che eretici e modernisti diffondessero i propri errori dai pulpiti, dalle cattedre, dai giornali sedicenti cattolici.

E così la Signora dei Popoli, la domina gentium, è finita sub tributo. Perché ora si lamenta perché con coerenza l'Europa non include il Natale in un'agenda?

Quando si scoprirà il sepolcro conciliare, imbiancato dall'alibi ipocrita della pastoralità, per scoprirne il marciume e i vermi che vi si annidano?

[Fonte: http://opportuneimportune.blogspot.com/2010/12/hypocritae.html ]

martedì 28 dicembre 2010

Uccidono i cristiani, ma è l'Europa ad essere morta.

Nel giro di poche ore l'Ue si dimentica delle festività critiane e si rifiuta di equiparare le vittime del comunismo a quelle del nazismo. E se ne frega se attaccano le chiese in Nigeria e nelle Filippine.

Per l’Unione europea il Natale non esi­ste, la Pasqua nemmeno, e se uccidono i cristiani in Nigeria e nelle Filippine, co­me è accaduto nel giorno di Natale, chi se ne frega, la cosa non ci riguarda.

I cri­stiani saranno una setta del posto. Noi europei ci occupiamo di misurare le ba­nane, mica di religioni, superstizioni, stragi e amenità varie. Noi siamo civili, lavoriamo in banca, mica pensiamo alle festività religiose. E poi in questi giorni la Commissione europea non lavora, è in vacanza natalizia, anche se non si sa uffi­cialmente la ragione di queste festività, sarà l’anniversario dell’euro o l’onoma­stico di Babbo Natale...

Non sto vaneggiando per overdose di spumanti e pa­nettoni. È stata diffusa in milioni di copie e in migliaia di scuole, in tutta Europa e forse anche nei Paesi islamici, l’agenda ufficia­le dell’Europa, firmata della Commissione europea. Nel diario europeo, che mi è capitato di vedere, c’è traccia delle più estrose festività relative alle più minoritarie religioni, ma non c’è alcun riferimen­to alle festività antiche, canoniche e ufficiali della cristianità europea. Non si sa perché festeggiamo Natale e le altre festività religiose, nulla è ac­cennato sull’agenda che ricordi la Natività, la Resurrezione e tutto il re­sto, nulla che segni in rosso una san­­ta festività. Ma quale Natale, Pasqua, Epifania, diceva Totò, a cui evidente­mente si ispira l’Unione Europea. L’ha fatto notare, protestando, il mi­nistro degli Esteri Frattini, ma in que­sti giorni l’Unione europea è chiusa per inventario merci (non esistendo il Santo Natale) e dunque la protesta affonda nel vuoto vacanziero di que­sta vuota Europa.

A ragion veduta possiamo perciò accusare l’Unione europea di nega­zionismo. L’Unione europea è un’as­sociazione vigliacca di smemorati banchieri fondata sul negazioni­smo. Nel giro di poche ore, l’Unione eu­ropea ha infatti negato le festività cri­stiane e dunque la sua tradizione principale ancora viva da cui provie­ne e nel cui nome ha un calendario e un sistema di festività. Ed ha pure ne­gato ai Paesi dolorosamente usciti dal comunismo il diritto di conside­rare i loro milioni di vittime sullo stes­so piano delle vittime del nazismo. Come sapete, la Commissione eu­ropea ha nega­to che si possano equi­parare gli stermini comunisti a quelli nazisti e possa dunque scattare an­che per loro il reato di negazionismo. Pur avendo commesso «atti orren­di», i regimi del gulag, secondo la Commissione europea, «non hanno preso di mira minoranze etniche». E che vuol dire, sterminare i borghesi o i contadini è meglio che sterminare gli appartenenti a una razza? Uccide­re chi non la pensa come te è un cri­mine meno efferato che uccidere chi è di un’altra razza? Tra le fosse di Ka­tyn, le foibe e le camere a gas di Da­chau, qual è la differenza etica, giuri­dica ed umana? Tra chi nega gli ster­mini di popolazioni civili di Paesi in­vasi dal comunismo e chi nega gli stermini etnici, qual è la differenza?

È ideologica, signori, puramente ide­ologica. Come ideologica è la nega­zione delle tradizioni cristiane più popolari. Non parliamo infatti del dogma trinitario o di altri quesiti teo­logici, qui parliamo di Natale e Pa­squa, avete presente? Alla base del­l’Europa c’è un negazionismo vi­gliacco e bugiardo, che non è solo quello di negare alcuni colossali orro­ri per riconoscere e perseguirne de­gli altri; ma negare l’Europa stessa, la sua vita, il calendario che scandisce i suoi giorni, la sua realtà e la sua veri­tà, la sua tradizione e la sua storia.

Il negazionismo dell’Unione euro­p­ea è ancora più grave del negazioni­smo elevato a reato: perché non ne­ga solo alcuni orrori, ma nega anche in positivo la storia, la provenienza, la vita europea. Del suo passato l’Unione resetta tutto,difende solo la memoria della Shoah, e poi cancella millenni di civiltà cristiana, millenni di natali e pasque, orrori del comuni­smo e di altre tirannidi. Che schifo.

Io non ho ancora capito a che serve l’Unione europea fuori dall’ambito economico. Non è un soggetto politi­co che esprime posizioni unitarie, non ha un governo passato dal con­senso del popolo europeo, la sua stes­sa unione non fu voluta o almeno rati­ficata da un referendum costitutivo del popolo sovrano. Non è un sogget­to cul­turale e civile perché non fa nul­la per affermare, difendere o valoriz­zare l’identità europea, anzi fa di tut­to per negarla. Non ha una sua carta costituzionale dove declina le sue ge­neralità storiche, le sue affinità idea­li, i suoi principi, le sue provenienze civili e religiose. Non ha una sua poli­tica es­tera unitaria o una strategia in­ternazionale, e non si occupa di stra­gi dei cristiani, semmai si agita solo se c’è una donna condannata a mor­te per aver ucciso il marito in Iran. Insomma, l’Europa non è mai nata e ha paura pure della sua ombra. Esi­ste solo un sistema monetario unico, un sistema di dazi e di regole, di ban­che e di finanziamenti. È un ente eco­nomico, un istituto per il commer­cio. Per questo l’Unione europea non esiste, abbiamo ancora la Cee, la Comunità economica europea. Anzi non sprechiamo la parola comunità per un consorzio economico, tornia­mo al Mec, Mercato europeo comu­ne. L’Europa è un morto che cammi­na.

fonte: Marcello Veneziani su Il Giornale

domenica 26 dicembre 2010

Una nefasta concezione d'Europa

Il mito dell’ “Europa” come stella polare verso cui l’Italia dovrebbe volgersi senza “se” né “ma”, se vuole uscire dalle tenebre di oggi verso un domani ben più luminoso, ha fatto ancora una volta la propria ricomparsa sulla scena politica italiana.

Uno dei nuovi gruppi parlamentari d’opposizione che si sono formati negli ultimi giorni l’ha messo al centro del proprio programma. Alla sua radice c’è l’idea ricorrente secondo cui l’Italia non è un “paese normale” per due motivi: perché non avendo accolto la Riforma protestante si è perciò stesso preclusa alla modernità; e perché la presenza della Santa Sede a Roma costituisce un’enorme palla al piede a causa della quale nemmeno oggi il nostro Paese riesce a ricuperare il tempo sin qui perduto.

Non è un’idea nuova. Risale anzi all’epoca di Camillo Cavour, ed è una delle diverse eredità negative del suo progetto politico che ancora pesano sul nostro presente. Coerentemente con tale giudizio Cavour era convinto che alla presa di Roma avrebbe fatto seguito l’esodo del Papa dall’Italia, possibilmente il ritorno del Papato ad Avignone o da qualche altra parte in Francia. La morte prematura gli risparmiò il dispiacere del fallimento di questo suo grande obiettivo, forse l’unico che gli sfuggì, che è tanto certo quanto censurato dalla storiografia ufficiale. L’idea che l’Italia avesse bisogno di diventare un “paese normale” nel senso più sopra ricordato tuttavia gli sopravvisse.

Quando poi, quasi ottant’ani più tardi, si cominciò a procedere verso quella che si sarebbe chiamata Unione Europea, accanto all’ispirazione di matrice cattolica dei padri fondatori Adenauer, Schuman e De Gasperi in Italia germogliò pure l’idea di un “ammodernamento” del nostro Paese nel senso sopra ricordato da realizzarsi di forza facendo leva sul mito dell’”Europa”, intesa peraltro non nel suo insieme ma facendo esclusivo riferimento a una certa Europa; a un Nord Europa ieri protestante e oggi relativista che peraltro non rende nemmeno piena giustizia all’odierna realtà nordeuropea come essa è realmente.

I danni causati da questa ideologia, il cui influsso va ahimè anche ben oltre le file dell’attuale opposizione, sono notevolissimi. Basti citare un caso, quello di Prodi, che ne è imbevuto. L’ingresso in ginocchio dell’Italia nell’euro con un tasso di cambio molto sfavorevole, e a condizioni che ci sono costate la perdita di circa metà del nostro potere d’acquisto in dieci anni, nasce da qui. E’ un’ideologia nefasta che, magari anche inconsapevolmente, riappare ogni volta che un ministro ci viene a dire che una certa cosa si deve fare perché “ce lo chiede l’Europa”, oppure che se non la si fa si corre il rischio di “uscire dall’Europa”.

Il primo argomento è una furbizia di tipo neo-autoritario, ma il secondo è sintomo di un complesso d’inferiorità patetico. Senza l’Italia l’Europa non ci sarebbe nemmeno; non solo perché è uno dei Paesi fondatori delle istituzioni europee, ma soprattutto perché ne è la culla culturale e storica. Perciò in Europa né dobbiamo entrare né possiamo uscire. Se di ciò il nostro ceto politico fosse più consapevole la nostra politica europea sarebbe molto più forte e più influente con vantaggio sia nostro che dell’intera Unione.
Robi Ronza 18-12-2010 - www.robironza.wordpress.com

sabato 25 dicembre 2010

Cancellato il Natale dal calendario UE

Non bastavano i crocifissi asportati dalle pareti delle aule scolastiche. Non bastavano né bastano insegnanti ottusi che ogni anno per non dispiacere ad alunni stranieri, proibiscono presepi, alberi di Natale e recite natalizie. Non bastavano i cosiddetti "integrazionisti" che sostituiscono nei canti,Gesù con virtù, convinti di fare "buona integrazione" multikulti. Non basta tutto l'elenco delle vessazioni provenienti dall'Europa della BCE, che ho già diligentemente compilato nel mio precedente post "Ce lo chiede l'Europa"

Ora la Commissione Europea ha prodotto più di tre milioni di copie di un diario dell’UE per le scuole secondarie che non contiene nessun riferimento al Natale, ma include festività ebraiche, indù sikh e musulmane. Più di 330 mila copie del diario, accompagnate da 51 pagine di informazioni in carta lucida sull’Unione Europea sono state consegnate alle scuola britanniche, scrive il Daily Telegraph, come un omaggio agli allievi da parte della Commissione. Con grande stupore dei cristiani britannici la sezione relativa al 25 dicembre è vuota e in calce alla pagina c’è questo messaggio: “Un vero amico è qualcuno che condivide le tue preoccupazioni e la tua gioia”. Ma va' là? Siamo dunque agli epigrammi filosofici?

Il calendario comprende festività musulmane, indù, sikh, ebraiche e cinesi, e altre, come il giorno dell’Europa e altri anniversari chiave dell’unione Europea; ma non ci sono festività cristiane segnalate, a dispetto del fatto che il cristianesimo è la religione della maggioranza degli europei. La notizia presa da La Stampa, è stata veicolata dal blog Fatti d'Europa.

E d’altronde anche i cartoncini d’auguri della Commissione (ma non solo della Commissione) dicono semplicemente “Auguri di stagione” (Season's greetings) senza nessun riferimento a feste cristiane.

Me ne lamentai già in proposito su vecchi post prenatalizi, ottenendo un'insoddisfacente risposta da parte di un'americana che sottolineava l'esigenza di festeggiare il solstizio. Ma dato che il solstizio d'inverno cade proprio a ridosso delle festività natalizie, che dobbiamo dire d'ora in poi? "Buon Solstizio?".
Non facciamo ridere i passeri!
E' evidente che quegli "auguri stagionali" sono un una formula neutra,una trovata passepartout per vendere più merce possibile anche nei paesi non cristiani. E' il mercato, Bellezza, e gli affari prima di tutto.

Così prima si scristianizzano i paesi d'Europa attraverso Natali che sembrano dei Luna Park e dei caotici gran Bazar, allestiti con grande spreco di luminarie e con grotteschi Santa Claus piazzati a ogni angolo di metropoli, tanto per indurre alla vendita di mercanzia d'ogni genere; poi li si escludono dal diario delle festività d'Europa. Intanto i "cristiani" sono tutti "laici", no? Mica se la prendono... E' un lavoro subdolo astutamente congegnato che proviene da lontano.
1) Scristianizzare 2) mercificare, 3) lasciarci invadere di immigrati di altre etnie e religioni 4) sostituirci.omissis cristiani.

Anzi, ce lo impone l'Europa dei massoni. Con un Dio Mercante uguale per tutti. Questa sì, che è uguaglianza.

[Fonte:http://sauraplesio.blogspot.com/2010/12/la-ue-cancella-il-natale-dal-suo.html]

venerdì 3 dicembre 2010

L'Europa non sarebbe più Europa se il matrimonio sparisse

Il Pontefice auspica che la nuova Costituzione del Paese sia ispirata ai valori cristiani

Traduzione del discorso del Papa all'Ambasciatore di Ungheria.

Signor Ambasciatore,
con gioia Le dò il benvenuto in questa solenne occasione della consegna delle Lettere Credenziali che L'accreditano come Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Repubblica d'Ungheria presso la Santa Sede, e La ringrazio per le Sue gentili parole. Sono grato per i deferenti saluti che mi ha presentato a nome del Signor Presidente Dott. Pál Schmitt e del Governo, e che ricambio volentieri. Allo stesso tempo vorrei pregarLa di assicurare i Suoi connazionali del mio sincero affetto e della mia benevolenza.

Dopo la ripresa dei rapporti diplomatici tra la Santa Sede e la Repubblica d'Ungheria nel 1990, si è potuta sviluppare nuova fiducia per un dialogo attivo e costruttivo con la Chiesa Cattolica. Nutro al contempo la speranza che le profonde ferite di quella visione materialistica dell'uomo, che si era impadronita dei cuori e della comunità dei cittadini del Suo Paese per quasi 45 anni, possano continuare a guarire in un clima di pace, libertà e rispetto della dignità dell'uomo.

La fede cattolica fa senza dubbio parte dei pilastri fondamentali della storia dell'Ungheria. Quando, nel lontano anno 1000, il giovane principe ungherese Stefano ricevette la corona reale inviatagli da Papa Silvestro ii, a ciò era unito il mandato di dare alla fede in Gesù Cristo spazio e patria in quella terra. La pietà personale, il senso di giustizia e le virtù umane di questo grande re sono un alto punto di riferimento che funge da stimolo e imperativo, oggi come allora, a quanti è affidato un ruolo di governo o un'analoga responsabilità. Certamente non ci si aspetta dallo Stato che venga imposta una determinata religione; esso dovrebbe piuttosto garantire la libertà di confessare e praticare la fede. Tuttavia, politica e fede cristiana si toccano. Senz'altro la fede ha la sua specifica natura quale incontro con il Dio vivente che ci apre nuovi orizzonti al di là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa, permettendole di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. Non si tratta di imporre norme o modi di comportamento a coloro che non condividono la fede. Si tratta semplicemente della purificazione della ragione, che vuole aiutare a far sì che ciò che è buono e giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato (cfr. Enciclica Deus caritas est, 28).

Negli ultimi anni, poco più di venti, dalla caduta della cortina di ferro, evento nel quale l'Ungheria ha svolto un ruolo di rilievo, il Suo Paese ha occupato un posto importante nella comunità dei popoli. Da ormai sei anni l'Ungheria è anche membro dell'Unione Europea. Con ciò apporta un contributo importante al coro a più voci degli Stati d'Europa. All'inizio del prossimo anno toccherà all'Ungheria, per la prima volta, assumere la Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea. L'Ungheria è chiamata in modo particolare ad essere mediatrice tra Oriente e Occidente. Già la Sacra Corona, eredità del re Stefano, nel collegamento della corona graeca circolare con la corona latina posta ad arco sopra di essa - ambedue recano il volto di Cristo e sono incoronate dalla croce - mostra come Oriente e Occidente dovrebbero sostenersi a vicenda e arricchirsi l'un l'altro a partire dal patrimonio spirituale e culturale e dalla viva professione di fede. Possiamo intendere ciò anche come un leitmotiv per il Suo Paese.

La Santa Sede prende atto con interesse degli sforzi delle autorità politiche nell'elaborare un cambiamento della Costituzione. Si è espressa l'intenzione di voler far riferimento, nel preambolo, all'eredità del Cristianesimo. È altrettanto auspicabile che la nuova Costituzione sia ispirata ai valori cristiani, in modo particolare per quanto concerne la posizione del matrimonio e della famiglia nella società e la protezione della vita.

Il matrimonio e la famiglia costituiscono un fondamento decisivo per un sano sviluppo della società civile, dei Paesi e dei popoli. Il matrimonio come forma di ordinamento basilare del rapporto tra uomo e donna e, allo stesso tempo, come cellula fondante della comunità statale è venuto plasmandosi anche a partire dalla fede biblica. In questo modo, il matrimonio ha dato all'Europa il suo particolare aspetto e il suo umanesimo, anche e proprio perché si è dovuta apprendere e conseguire continuamente la caratteristica di fedeltà e di rinuncia tracciata da esso.

L'Europa non sarebbe più Europa se tale cellula basilare della costruzione sociale sparisse o venisse sostanzialmente trasformata. Sappiamo tutti quanto sono a rischio il matrimonio e la famiglia oggi - da un lato per l'erosione dei loro valori più intimi di stabilità e indissolubilità, a causa di una crescente liberalizzazione del diritto di divorzio e dell'abitudine, sempre più diffusa, alla convivenza di uomo e donna senza la forma giuridica e la protezione del matrimonio, dall'altro lato per diversi generi di unione che non hanno alcun fondamento nella storia della cultura e del diritto in Europa. La Chiesa non può approvare iniziative legislative che implichino una valorizzazione di modelli alternativi della vita di coppia e della famiglia. Essi contribuiscono all'indebolimento dei principi del diritto naturale e così alla relativizzazione della legislazione tutta, nonché della consapevolezza dei valori nella società.

"La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli" (Enciclica Caritas in veritate, 19). La ragione è in grado di garantire l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica, ma non riesce, alla fin fine, a fondare la fraternità. Questa ha origine in una vocazione soprannaturale di Dio, il quale ha creato gli uomini per amore e ci ha insegnato per mezzo di Gesù Cristo che cosa sia la carità fraterna. La fraternità è, in un certo senso, l'altro lato della libertà e dell'uguaglianza. Essa apre l'uomo all'altruismo, al senso civico, all'attenzione verso l'altro. La persona umana, infatti, trova se stessa solo quando supera la mentalità incentrata sulle proprie pretese e si proietta nell'atteggiamento del dono gratuito e della solidarietà autentica, che molto meglio risponde alla sua vocazione comunitaria.

La Chiesa Cattolica, come le altre comunità religiose, ha un ruolo non insignificante nella società ungherese. Essa si impegna su larga scala con le sue istituzioni nel campo dell'educazione scolastica e della cultura, nonché dell'assistenza sociale, e in tal modo contribuisce alla costruzione morale, davvero utile al Suo Paese. La Chiesa confida di poter continuare, con l'appoggio dello Stato, a svolgere e intensificare tale servizio per il bene degli uomini e per lo sviluppo del Suo Paese. La collaborazione tra Stato e Chiesa Cattolica in questo campo cresca anche in futuro e rechi giovamento per tutti.

Illustre Signor Ambasciatore, all'inizio del Suo nobile incarico auguro a Lei una missione colma di successo, e Le assicuro allo stesso tempo il sostegno e l'appoggio dei miei collaboratori. Maria Santissima, la Magna Domina Hungarorum, estenda la propria mano protettrice sul Suo Paese. Di cuore imploro per Lei, Signor Ambasciatore, per la Sua famiglia, per i Suoi collaboratori e collaboratrici nell'Ambasciata e per tutto il popolo ungherese l'abbondante benedizione divina.

(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2010)

domenica 28 novembre 2010

Modellare l'Europa con l'originalità delle radici cristiane

L'Europa non deve temere le sue radici cristiane perché "se l'Europa avrà vergogna di se stessa, delle sue radici e della sua identità cristiana, non avrà futuro. Avanzerà inesorabilmente verso il suo declino". Parole forti quelle pronunciate la sera del 24 novembre a Bruxelles da mons. Rino Fisichella, presidente del neo Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, intervenuto al dibattito "Shaping the Eu of tomorrow" (Modellare l'Ue del domani), promosso dalla Comece (Commissione episcopati Comunità europea) in occasione del 30° anniversario della sua costituzione e ospitato dalla Rappresentanza della Baviera presso l'Unione europea.

Identità forte e condivisa. In un lungo e articolato intervento, mons. Fisichella ha parlato del contributo del cristianesimo all'Europa. "L'esperienza ci insegna - ha detto - che il futuro è determinato dalla nostra storia e dalla capacità che avrà la nostra generazione di trasmettere il nostro patrimonio di civiltà e di storia alle generazioni che verranno". Per il prelato vaticano l'Europa "non potrà mai essere realmente unita, se deciderà di tagliare con il suo passato. Non le sarà possibile imporre ai dei cittadini così differenti un sentimento di appartenenza ad una realtà senza radici e senza anima. Il progetto non potrà essere coronato da successo". Solo con "una identità forte e condivisa da tutti" - ha aggiunto mons. Fisichella - l'Europa "sarà capace di vincere ogni forma di fondamentalismo ed di estremismo che minacciano i nostri Paesi in maniera sempre più ricorrente". Il presidente del dicastero vaticano ha concluso il suo discorso sottolineando la presenza in Europa di "una neutralità tentata di anticristianesimo". Ed ha detto: "Noi cattolici non ci tiriamo indietro dalla nostra responsabilità e non accetteremo di essere marginalizzati. Crediamo al contrario che il nostro contributo è essenziale perché il processo possa realizzarsi positivamente. Senza la presenza significativo dei cattolici, l'Europa si impoverisce. Si isola e diventa meno attraente. Ecco perché vogliamo essere ascoltati e messi alla prova perché possa apparire ancora una volta la ricchezza della nostra fede di fronte al progresso autentico della società".

Risvegliare la coscienza. Nell'analisi sulla situazione e sulle prospettive dell'Unione europea, Jacques Delors, presidente della Commissione Ue dal 1985 al 1994, ha confermato il suo pensiero sull'urgenza di "un valore alto e condiviso dagli europei". "Solo se la dimensione spirituale non verrà posta al di fuori delle riflessioni culturali e politiche - ha detto - l'Europa avrà un futuro, potrà rispondere cioè alla vocazione di 'casa comune' e di testimonianza di democrazia e di pace nel mondo: l'Europa ha sempre più bisogno di un'anima". "Nessun dubbio sulla validità dei passi compiuti dalle Istituzioni europee in 60 anni", ha aggiunto, ma "accanto alla moneta unica, alla libera circolazione, a Lisbona e all'allargamento, occorre una rinnovata e più forte comprensione reciproca, bisogna che i popoli d'Europa tengano viva la fiamma dell'unità nella diversità che i padri hanno lasciato loro perché oggi anche le nuove generazioni abbiano una luce per il loro percorso verso l'Europa del futuro, la loro Europa". Purtroppo, ha commentato Delors, "i governi nazionali hanno perso entusiasmo per il progetto europeo" mentre "nella società l'individualismo sta guadagnando terreno"e si sta smarrendo la solidarietà, uno dei pilastri portanti della "casa comune". Delors ha indicato nel "tesoro nascosto dell'educazione" la via per non cedere al pessimismo: "occorre formare oppure, più semplicemente risvegliare la coscienza".

"Continuare, continuare, continuare…" Nel suo saluto ai partecipanti mons. Adrianus van Luyn, vescovo di Rotterdam e presidente Comece, ha affermato che "la Chiesa deve seguire con grande attenzione intellettuale e spirituale il processo di unificazione europea". Essa "non può fornire risposte su misura o proporre soluzioni ai problemi" dell'Ue, ma può offrire i principi "metapolitici" e "metaeconomici" dell'inviolabile dignità della persona umana, del bene comune, della sussidiarietà e della solidarietà. "In Europa - ha osservato ancora il presidente Comece - il cristianesimo sopravviverà solo se i cristiani avranno la volontà di svolgere un ruolo attivo nel dare forma alla costruzione europea e lavoreranno per un futuro più umano per il nostro continente". Da parte sua il ministro di Baviera, Emila Müller ha rievocato la riunificazione delle due Germanie, mentre il neo cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga e vicepresidente Comece, si è soffermato sull'importanza della dottrina sociale della Chiesa, sul ruolo della Comece e sul valore del dialogo tra Chiese e istituzioni Ue. Paolo Bustaffa, direttore di SIR - SIR Europa e moderatore del dibattito, ha concluso l'incontro con un ricordo di Jean Monnet: "Quando poco prima della sua morte alcuni giornalisti gli chiesero che cosa si sarebbe dovuto fare per rilanciare l'Europa, egli rispose: 'Continuare, continuare, continuare'". "Questo - ha commentato Bustaffa - è l'appello che le Chiese europee sono chiamate anche oggi a raccogliere e a tradurre in un impegno ancor più forte".
[Fonte: SIR novembre 2010]

giovedì 28 ottobre 2010

Cortocircuito in Europa. Sembra spezzato il filo che lega cultura, religione e legge.

Si vuole costruire un continente indipendente dal cristianesimo e in alcuni casi anche contro

Anticipiamo ampi stralci della relazione che l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione tiene nel pomeriggio del 28 ottobre a Roma, nella Sala San Pio x di via della Conciliazione, nell'ambito dell'incontro "Un'Europa cristiana?", organizzato dall'Elea, al quale interviene anche il presidente della Fondazione Italianieuropei, Massimo D'Alema.

di Rino Fisichella

È bene ricordare che ci sono principi posti alla base di ogni civiltà che ne condizionano e determinano lo sviluppo, la sopravvivenza o la distruzione. Tre in modo particolare sono comunemente accettati: la cultura, la religione e la legge. È proprio di ogni società riconoscersi in una cultura e negli aspetti che la specificano nel confronto con altre; di questa fanno parte la lingua, le tradizioni, l'arte nelle sue diverse manifestazioni e tutto ciò che costituisce l'agire e il pensare personale e sociale. La religione, da parte sua, porta la risposta all'interrogativo fondamentale dell'uomo sul senso della propria vita. Nell'uomo c'è qualcosa che lo trascende, un "infinito" che egli stesso sperimenta in ogni atto della sua esistenza personale e che non può reprimere. Infine, c'è la legge; quell'insieme cioè di disposizioni che regolano la vita sociale e consentono di identificarsi in un sistema di pensiero e di comportamenti che si fa garante della giustizia, del bene e del male. Proprio questo ultimo principio provoca a comprendere quanto fondamentale sia la relazione tra i tre elementi descritti perché non avvenga che uno contraddica l'altro creando di fatto un cortocircuito tale da mettere in crisi un sistema di vita e di pensiero.
Ciò che si sta verificando in Europa, purtroppo, mi sembra essere proprio questo cortocircuito che impedisce una circolarità comunicativa tra i tre principi descritti, con la conseguente condizione di crisi permanente in cui siamo inseriti. Ciò che balza evidente è una situazione fortemente paradossale. Nel tempo in cui l'Europa viveva di valori condivisi, possedeva una forte identità che la rendeva facilmente riconoscibile nonostante i confini territoriali. In questi anni, invece, mentre si sono abbattuti i confini che avrebbero dovuto creare un'unità, ciò a cui si assiste è il moltiplicarsi delle differenze, l'aumento degli estremismi e la frammentarietà domina a tal punto da far sgretolare ogni possibile unità.
Si ha l'impressione che in questo processo di unificazione tutto sia già prefissato e determinato da un'élite di persone, senza un diretto coinvolgimento dei cittadini che sono i primi attori. Aver voluto escludere le radici cristiane non è stata una bella premessa ma l'oblio delle tradizioni in cui i popoli si riconoscono può diventare una colpa perché parte dal presupposto che il nuovo da costruire si deve imporre con una rottura con il passato.
Non si può pretendere di suscitare un senso di appartenenza a una nuova realtà come l'Europa distruggendo l'identità che i popoli si sono costruiti nel corso di secoli. Pensare che una moneta unica possa dare identità o che lo scambio di studenti con il progetto Erasmus crei il senso di appartenenza è superficiale. Questi sono strumenti, validi e utili, ma devono essere fondati, accompagnati e sostenuti da un progetto culturale rispettoso delle differenze e in grado di fare sintesi per una novità originale, altrimenti tutto diventa uniforme: linguaggio, arte, architettura, letteratura, politica, economia.
In questo modo il cittadino si stanca, si rinchiude in se stesso e perde entusiasmo. Se questo si sta verificando, temo dipenda anche dal fatto che si vuole costruire un'Europa indipendente dal cristianesimo e, in alcuni casi, perfino contro. Eppure, il cristianesimo è una condizione obbligatoria per la coerente comprensione dell'Europa. Le religioni per l'Europa non possono essere tutte uguali. Non siamo in una notte oscura dove tutto è incolore. Il primato della ragione, conquistato nel corso dei secoli, non può appiattirsi proprio ora con un egualitarismo da sabbie mobili che impedisce di dare voce alla forza critica. Questa è chiamata a discernere tra le religioni e a scegliere di riconoscere le proprie origini e l'apporto ricevuto.
Insomma, abbiamo il compito di produrre pensiero che sia capace di gettare le fondamenta per un'epoca che darà cultura alle future generazioni permettendo loro di vivere nella genuina libertà perché proiettati verso la verità. È questo pensiero che manca e sinceramente non lo vedo ancora all'orizzonte.
Come ricordava di recente Benedetto XVI, "il mondo soffre per la mancanza di pensiero". Il dramma, probabilmente, sta tutto qui. Se manca la forza del pensiero non si può pretendere alcuna progettualità e tutto diventa monotono fino a giungere all'asfissia. A chi compete la progettualità, soprattutto di una nuova antropologia capace di proiettare un nuovo modello di società? Certamente non a un solo gruppo.
Questo è il momento di una sinergia in grado di fare sintesi del patrimonio del passato per interpretarlo alla luce delle conquiste che caratterizzano la nostra epoca in modo da trasmetterlo alle generazioni che verranno dopo di noi. Il cortocircuito è avvenuto perché le tre componenti della civiltà hanno intrapreso una strada solitaria e per molti versi, perché hanno giocato solo in difesa o all'attacco, senza comprendere che nessuno può vivere senza l'apporto degli altri.
Non dobbiamo, quindi, ripetere lo sbaglio del passato nel concepire il nuovo che prepariamo come una rottura con il passato. Non è così che la storia progredisce. Non è emarginando né esorcizzando il cristianesimo che si potrà avere una società migliore. Non potrà avvenire. Una lettura come questa non solo è miope, ma è sbagliata nelle sue stesse premesse. Non ci sarà una formazione di identità matura né per i singoli né per i popoli se si prescinde dal cristianesimo. Certo, la nostra storia è costellata di luci e ombre, ma il messaggio che portiamo è di genuina liberazione per l'uomo e di coerente progresso per i popoli. Il fondamento di un corretto rapporto tra la ragione e la fede lo si deve al nostro pensiero che non ha mai voluto umiliare la ragione, ma ne ha fatta una compagna di strada ineliminabile. È difficile in una fenomenologia delle religioni mondiali verificare un altrettanto equilibrato rapporto tra le due componenti come nel cristianesimo.
Per la nostra tradizione la fides quaerens intellectum è condizione per poter raggiungere ogni uomo e ogni donna, in ogni parte del mondo in quella fondamentale uguaglianza che è data appunto dalla razionalità, i cui contenuti sono accolti anche dalla fede pur con il suo processo di purificazione.
È da questo rapporto positivo con la ragione che si evitano i conflitti e si esclude ogni fondamentalismo; espressione di un frammento di verità assolutizzato senza considerare l'apporto degli altri. Per noi non è così. La verità che pensiamo è data per via di rivelazione, ma è entrata nella storia con l'incarnazione del Figlio di Dio e questo la rende inevitabilmente soggetta al progredire e alla dinamica fino alla fine dei tempi. D'altronde, è proprio la concezione del valore salvifico della verità che ha permesso ai cristiani di renderla universale conquista e non un prezzo da mercato. Alla stessa stregua, la concezione del perdono come espressione di amore che sa andare oltre l'offesa, è ciò che ha plasmato intere generazioni di popoli e ha consentito di verificare una fratellanza e una solidarietà più profonda.
Il concetto di matrimonio che il cristianesimo ha portato come unicità di rapporto nella reciprocità dell'amore ha saputo garantire la giustizia contro l'arbitrarietà che umiliava la donna indifesa, e la forza della relazione interpersonale come collante del tessuto sociale. E la ricerca del bene comune, nel rispetto per la dignità di ogni persona, non deriva proprio dal concetto stesso di persona che il cristianesimo ha prodotto come suo contributo al patrimonio dell'umanità a partire dal iv secolo?
Il rispetto per la vita, soprattutto nei confronti di quella innocente, debole e indifesa è un ulteriore segno della presenza del cristianesimo nel tessuto sociale che ha permesso di giungere a intuizioni straordinarie nelle opere di assistenza che permangono immutate come punti fermi per la società.
Non avanziamo nessun diritto di primogenitura su diverse conquiste che sono state compiute nel corso dei secoli e che segnano la storia di questi venti secoli; non desideriamo, però, che altri se ne impossessino giungendo perfino a negare la nostra originalità e il nostro apporto. Se ricordiamo questi fatti, e tanti altri potrebbero allungare l'elenco, è solo per ribadire che il cristianesimo non è di inciampo al progresso della società, ma sua condizione di genuino sviluppo. Come questo debba avvenire ce lo ricorda ancora una volta l'originalità stessa della nostra fede. La laicità, di cui tutti siamo gelosi, non è altro che l'applicazione di quella parola del Signore: "Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Matteo, 22, 21). Laicità, come sempre più spesso in questi anni è dato da verificare, non è esclusione del cristianesimo, ma ascolto di quanto esso può offrire come suo contributo peculiare. Accettarlo o rifiutarlo sarà una scelta che il legislatore dovrà ben valutare; non per una possibile manciata di voti a fine legislatura, ma per il buon governo della cosa pubblica e per la globale formazione culturale delle generazioni a venire. Una legge crea una cultura consequenziale. Proprio questo dovrebbe essere considerato in questo momento storico in cui si possono già vedere le conseguenze create da alcune legislazioni. La società è migliorata? I giovani hanno trovato maggior impegno e responsabilità nella società? Il lavoro è diventato una forma di realizzazione? La famiglia si è rafforzata nell'impianto sociale? La scuola è palestra di vita? L'ammalato è una persona da rispettare e non un peso per il bilancio? La vita nel suo insieme è rispettata? Questi interrogativi non sono retorici, dare risposta è obbligatorio.

(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2010)

mercoledì 20 ottobre 2010

“VERSO UNA CULTURA EUROPEA DEI DIRITTI FONDAMENTALI”

(Strasburgo) Pieno rispetto del dettato della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: è l’obiettivo che si pone una strategia, adottata oggi dalla Commissione su indicazione del Parlamento Ue, resa necessaria da quando, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Carta ha assunto valore vincolante nei 27 Stati aderenti. La Commissione verificherà in particolare “la conformità di tutte le leggi Ue con la Carta a ogni livello del processo legislativo, fino all’adozione dei progetti di atti legislativi al Parlamento e al Consiglio, e poi durante l’attuazione negli Stati membri”. L’Esecutivo si impegna a moltiplicare le informazioni a favore dei cittadini e pubblicherà una relazione annuale sull’applicazione della Carta “per monitorare i progressi realizzati”. Viviane Reding, vicepresidente della Commissione, specifica: “La Carta è l’espressione dei nostri valori e del nostro patrimonio costituzionale comune” e “deve orientare tutte le politiche dell’Unione”. Per questo la Commissione “controllerà che la Carta sia rispettata in tutte le proposte di atti legislativi” comunitari, “in ogni singola modifica introdotta dal Consiglio e dal Parlamento e dagli Stati membri nell’attuare il diritto dell’Ue”. La strategia adottata oggi dalla Commissione è ritenuta dalla Reding “un passo importante verso la creazione di una cultura europea dei diritti fondamentali”.
SIR 19 ottobre 2010

mercoledì 22 settembre 2010

Benedetto XVI, Udienza del 22 settembre: "Le antiche nazioni d'Europa hanno un'anima cristiana

“Parlare al cuore di tutti gli abitanti del Regno Unito, nessuno escluso, della realtà vera dell’uomo, dei suoi bisogni più profondi, del suo destino ultimo”. Così il Papa ha sintetizzato il significato del suo viaggio apostolico nel Regno Unito, ripercorrendone le tappe più salienti nella catechesi dell’udienza generale di oggi, svoltasi in piazza S. Pietro davanti a circa 8.500 fedeli.

Altro scopo del viaggio, ha spiegato il Santo Padre, quello di “sostenere la comunità cattolica, incoraggiandola a lavorare strenuamente per difendere le immutabili verità morali che, riprese, illuminate e confermate dal Vangelo, stanno alla base di una società veramente umana, giusta e libera”. “Nel rivolgermi ai cittadini di quel Paese, crocevia della cultura e dell’economia mondiale – le parole di Benedetto XVI – ho tenuto presente l’intero Occidente, dialogando con le ragioni di questa civiltà e comunicando l’intramontabile verità del Vangelo, di cui essa è impregnata”.

“Questo viaggio apostolico – ha rivelato il Papa ai fedeli – ha confermato in me un profonda convinzione: le antiche nazioni d’Europa hanno un’anima cristiana, che costituisce tutt’uno con il genio e la storia dei rispettivi popoli, e la Chiesa non cessa di lavorare per tenere continuamente desta questa tradizione spirituale e culturale”.

© Copyright Sir

sabato 21 agosto 2010

Per una nuova laicità in Europa dopo il crollo del Muro

Il diritto alla libertà e il suo rovescio
di Péter Erdö

In vista del trentunesimo «Meeting per l'amicizia fra i popoli» che si svolgerà a Rimini dal 22 al 28 agosto, anticipiamo stralci di un articolo a firma del cardinale arcivescovo di Esztergom-Budapest che sarà pubblicato sul prossimo numero di «Atlantide», quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini.

Oltre venti anni dopo il crollo del Muro di Berlino giova ripensare alla situazione della nostra religione e dei credenti in un'Europa in cui si parla molto di laicità. L'Europa è un continente complicato, dalle mille facce, con diversi popoli e diverse eredità culturali, diverse sensibilità, diverse posizioni sociali della religione in generale e della Chiesa cattolica nei singoli Paesi. Riflettendo sulla situazione attuale, tenendo presenti gli elementi culturali e sociologici, possiamo identificare alcune realtà, e forse alcune possibilità, di ulteriore sviluppo riguardo al rapporto tra Chiesa e Stati nel nostro vecchio continente.

La parola laicità è molto comune nei Paesi di tradizione latina e cattolica: Italia, Francia, Spagna e Portogallo. Essa è storicamente collegata con un processo di secolarizzazione della politica avvenuto in questi Paesi durante l'epoca moderna. Come tutti sappiamo, questa storia fu contrassegnata da aspri conflitti e da fenomeni anche violenti, le cui vittime erano spesso non soltanto i portatori delle antiche strutture politiche, ma anche la gente semplice, tra cui molti credenti. Oggi comunque, in tutti questi Paesi, vige un sistema di netta separazione tra Stato e Chiesa, la cosiddetta «laicità dello Stato».

In un'altra regione del continente, precisamente nel Nord-Europa, dove la religione di Stato durante l'epoca moderna era qualche forma del protestantesimo, la separazione non si è manifestata in forma tanto violenta, ma il processo di secolarizzazione è stato comunque continuo, e ha condotto all'esaurimento delle istituzioni e dei legami religiosi. Le forme istituzionali religiose non sono state rifiutate in modo radicale, ma, con la secolarizzazione della società, pur conservando alcuni simboli religiosi, o magari, anche un ruolo istituzionale interno a qualche comunità religiosa -- come nel caso della Chiesa di Inghilterra -- è stata permessa sempre di più anche la libertà delle altre religioni, e il funzionamento pienamente secolare delle istituzioni pubbliche.

Un terzo gruppo dei Paesi europei è rappresentato dai cosiddetti «Paesi dell'Est». In questi Paesi la lunga oppressione comunista ha separato in modo brutale la religione dallo Stato. Ufficialmente non si annunciava la neutralità dello Stato, ma piuttosto il suo collegamento istituzionale con l'ideologia marxista-leninista, chiamata visione scientifica del mondo, oppure socialismo scientifico, oppure materialismo dialettico e storico. In realtà, tale ideologia aveva pienamente il ruolo di una religione di Stato, fino al punto che in alcuni Paesi la stessa costituzione dichiarava che «la forza guida della società è il partito marxista-leninista della classe operaia». Ciò significava che quelli che non si professavano marxisti-leninisti, avevano meno diritto di partecipare alla direzione della società. Vent'anni dopo il crollo di questo sistema i popoli dei Paesi ex-comunisti hanno attraversato uno sviluppo istituzionale, sociologico e ideologico. La prima novità in questo contesto è stata la libertà di religione, espressa in diverse leggi più o meno fondamentali in questi Paesi.

La Chiesa cattolica, da parte sua, aveva attraversato il periodo del rinnovamento conciliare, aveva precisato il vero senso cattolico della libertà religiosa, e cominciava ad affrontare la sfida del secolarismo con questo atteggiamento. Da parte cattolica, quindi, malgrado alcune nostalgie storiche, provenienti generalmente non dalla Chiesa stessa, ma piuttosto da altri gruppi della società, non ci fu nemmeno un tentativo di ottenere una posizione di religione di Stato.

Nei Paesi di tradizione ortodossa, parallelamente al risveglio di queste Chiese, si poté osservare anche una notevole riservatezza da parte degli organi statali, riguardo a un collegamento completo e ufficiale tra Stato e Chiese nazionali. Occorre notare che, specialmente in Russia, la distruzione della religione e la secolarizzazione erano talmente profonde che un tale collegamento, indipendentemente dalle intenzioni, non sembrava troppo realistico.

In questi ultimi Paesi del Centro-Est europeo, esistevano anche altri fatti culturali più o meno oppressi durante l'epoca comunista. L'elemento etnico o nazionale era uno di questi. Dopo il crollo del sistema si manifestarono più liberamente anche questi elementi di identità. Tale svolta era stata poco preparata anche dal punto di vista psicologico. Perciò scoppiarono conflitti nazionali ed etnici, come nel Caucaso, nei Paesi Baltici, nella ex-Iugoslavia, e, in una forma meno violenta, anche altrove nella regione. Tutto ciò fu confermato dalla nascita o rinascita di molti Stati nazionali che ottennero la loro sovranità dopo il crollo di Stati federali comunisti. Tale fenomeno nazionale si collegava in alcune parti con elementi religiosi, essendo stata la religione una parte integrante della cultura specifica delle diverse nazioni. Altri elementi specifici di queste culture spesso non potevano svilupparsi sufficientemente per la pressione dell'internazionalismo comunista.

L'Europa conosce diversi modelli di rapporti tra Stato e Chiesa. Ma conosce anche diversi tipi di Stato. Oggi il modello prevalente è ancora lo Stato nazionale, prodotto tipico dell'epoca moderna. Ma costituisce una realtà fondamentale dell'Europa di oggi la presenza dell'Unione Europea che comprende una moltitudine di Stati nazionali, e che sembra influire notevolmente sulla vita interna degli Stati membri e anche dei cittadini. Stati grandi con la massima varietà di popoli, di regioni geograficamente ben diverse con profonde differenze economiche, linguistiche, culturali e religiose hanno contrassegnato per lunghe epoche la storia del nostro continente. Negli ultimi duemila anni i periodi senza grandi imperi in Europa sono stati molto più brevi di quelli nel segno di tali imperi.

Cronologicamente possiamo cominciare con l'impero persiano, il quale sin dall'epoca di Dario i (522-486 prima dell'era cristiana) comprendeva anche Tracia e Macedonia, e quindi, quella terra che oggi si considera europea. Come è noto, l'impero persiano all'epoca della sua fioritura rappresentava uno Stato governato secondo princìpi quasi moderni. In esso i diversi popoli avevano una notevole libertà di espressione della loro cultura e della loro religione, anzi rispetto al fatto culturale e religioso, avevano anche una cospicua autonomia giuridica per organizzare la vita secondo le proprie tradizioni. Questa situazione ha la sua precipitazione classica in diversi libri dell'Antico Testamento.

L'impero romano, da parte sua, era portatore di una coscienza di missione storica del popolo romano, ma incorporava nella sua struttura organizzativa elementi dell'eredità delle monarchie universali ellenistiche. Già Cicerone identifica l'imperium romanum con l'Orbis Terrarum. I tentativi di introdurre una concezione assolutistica dell'impero furono sconfitti.

Lo spazio notevole per l'autogoverno politico e culturale delle città nei primi due secoli dell'era cristiana cedeva il suo posto gradualmente alle forme aperte della monarchia militare nel III secolo. Da Diocleziano in poi si verificò una tendenza al decentramento del potere che produsse la tetrarchia, ma non nel senso del riconoscimento delle proprietà culturali ed economiche dei diversi popoli e delle diverse regioni. Nella tarda antichità era così pesante la pressione tributaria che la lealtà dei sudditi cominciava a vacillare già per questo motivo. Problema che accompagnò poi anche la storia bizantina.

All'alba del medioevo nacquero degli Stati posti sotto il potere di diversi popoli chiamati barbari, come il regno visigoto e quello dei franchi. In queste forme di Stato era un fenomeno fondamentale la duplicità della popolazione, cioè, il gran numero degli abitanti aventi cultura romana da una parte, e dall'altra parte, le comunità germaniche dalle quali proveniva la classe dirigente. Tale duplicità culturale condusse diversi re a promulgare varie leggi, diversi codici per le varie comunità viventi nello stesso Stato.

Anche nell'impero romano-germanico, chiamato in certi periodi Sacro romano impero della nazione tedesca, sopravvisse la pluralità dei diritti popolari e tribali anche nelle raccolte di diritto consuetudinario. Dal risveglio della conoscenza del diritto romano, dalla fine del xi e poi dal XII secolo, i testi del diritto romano giustinianeo cominciarono a influenzare gli alti livelli della vita giuridica, a partire dall'insegnamento universitario. Sebbene questo diritto sia stato rispettato soprattutto come ratio scripta, e non tanto come diritto pienamente vigente in tutte le relazioni della vita sociale, esso ha influenzato lo sviluppo del diritto europeo, e ha avuto in molte parti del continente la funzione di diritto sussidiario che aiutava a colmare le lacune delle leggi.

Fu nel tardo medioevo che anche il diritto canonico, sviluppato in base alle antichissime tradizioni anch'esso nel quadro dell'insegnamento universitario, cominciò a formare una certa unità culturale e teorica ma anche effettiva, per esempio nei dettagli del processo giudiziario o dei princìpi generali, con il diritto romano.

Un'altra logica morfologicamente più antica vigeva nell'impero ottomano, in cui i diversi popoli o le diverse comunità etnico-religiose godevano di grande autonomia anche giuridica e dove queste comunità portavano il nome di millet. Quanto ai cristiani va precisato che ancora all'inizio del XX secolo circa il 35 per cento dell'intera popolazione era di religione cristiana. Riguardo alla funzione del Patriarca di Costantinopoli all'interno di quell'organizzazione imperiale, si ricorda la drammatica uscita solenne del Patriarca con il suo clero nel campo dell'imperatore Maometto ii (Mohammed al Fatich, 1444-1446; 1451-1481), nell'anno storico 1453. Il sultano accettò l'atto di sottomissione del Patriarca, anzi lo riconobbe come capo dei cristiani del suo impero. Così accadeva che nel XVI e XVII secolo persino i principi protestanti della Transilvania, che in quell'epoca dipendeva come vassallo dall'impero ottomano, dovessero recarsi a Costantinopoli e ottenere il consenso del Patriarca, prima di chiedere il riconoscimento dell'imperatore turco.

Un capitolo meno remoto è costituito dall'esempio dell'impero sovietico, Stato federale composto da molte repubbliche, il quale aveva però anche una serie di altri Stati un po' meno strettamente dipendenti, ma legati a sé nel quadro del Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica) e del Patto di Varsavia. La possibilità dei popoli e gruppi di conservare la propria lingua, cultura e religione fu diversa nei diversi periodi della storia sovietica, e differente nei diversi stati satelliti. Cittadini ungheresi negli anni Settanta guardavano per esempio con grande ammirazione i molti ordini religiosi esistenti legalmente in Polonia.

Anche se la religione costituiva durante la storia un elemento determinante dell'identità etnica dei diversi popoli, nel quadro dei diversi imperi, nella storia si osserva una lunga serie di modalità di trattare questo fenomeno. Trattarlo, per esempio, in modi anche giuridicamente diversi, a seconda delle diversità dei popoli, dei Paesi, delle regioni autonome, delle tradizioni culturali, riconosciute in settori identificabili secondo criteri territoriali e personali. Nello specchio della storia, quindi, un elemento tipico e molto europeo dei rapporti tra Stato e Chiesa sembra essere proprio la diversità.

Prescindendo dalla stragrande diversità nella storia, dobbiamo osservare anche un altro fatto più o meno costante. In grandi imperi o in larghe e organizzate comunità di popoli, si dimostrava sempre necessario un denominatore comune riguardo alla visione del mondo. Tale denominatore comune poteva essere in alcuni imperi la personalità sacralizzata del sovrano, oppure, insieme con essa, il culto di alcuni dei comuni. Se un popolo, una religione, rifiutava questo elemento di culto della comunità, poteva esporsi a violente persecuzioni. Tale situazione è fin troppo conosciuta dalla storia della Chiesa. Eppure, lo ius gentium era rispettato già all'epoca romana. Alcuni principi cristiani erano accettati in tutti i Paesi dell'Europa medievale fino al punto che si poteva parlare di res publica christiana. Il cardinale Nicola da Cusa poteva scrivere con altri teorici della società della sua epoca che l'impero è il corpo, ma la Chiesa è lo spirito della res publica christiana. Non soltanto alcuni principi della fede quindi, ma la Chiesa come tale e il suo diritto erano tra questi elementi di unione della comunità medievale delle nazioni europee.

Nell'epoca moderna poi, cominciò a ricevere nuovi accenti il diritto naturale, interpretato comunque partendo dalla tradizione cristiana, per sfociare poi, all'epoca dell'illuminismo, nei diritti umani classici. Se oggi il contenuto e le basi dei diritti umani cominciano a perdere i loro chiari contorni, allora è giustificata la preoccupazione per le basi comuni, a livello di visione del mondo, della comunità dei popoli europei.

Sorge la domanda tecnica della gestione della libertà e della pluralità. La pluralità non può comprendere senz'altro qualsiasi atteggiamento di violenza o di terrore, la libertà, come vediamo in questi tempi di crisi, può causare la distruzione dei più deboli, e può aprire la strada alle ingiustizie più gravi, se non viene regolata dal principio del bene comune. Ma per identificare un bene comune ci vogliono principi comuni antropologici. Ci vuole una qualche visione comune su che cosa è buono per l'essere umano. E oltre a questo, ci vuole anche una autorità non sprovvista di forza che possa far valere le esigenze del bene comune. La dottrina sociale della Chiesa, arricchita recentemente dall'enciclica Caritas in veritate, è sempre attuale. Il dilemma del liberalismo classico dell'inizio del XX secolo è ritornato in dimensioni globali. Il mondo, il nostro vecchio continente specialmente, dovrebbe imparare dalle esperienze dell'ultimo secolo.

Una ribellione volontarista e violenta contro i problemi dell'egoismo sfrenato nell'economia può avere facilmente per effetto dittature sanguinose che risultano poi tentativi falliti di soluzione di un problema destinato a ritornare. Ma quanti milioni di vite umane sono il prezzo di questi tentativi! Non rimane dunque altra strada che quella della ricerca paziente e generosa delle forme regolate dal diritto e fedeli ai principi di sussidiarietà e di solidarietà che realizzano il bene comune, impegnandosi -- come dice Benedetto XVI -- «alla realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità».

La visione del mondo e quella dell'essere umano non dev'essere opera degli Stati, né delle autorità politiche. Nel senso di una giusta sussidiarietà, la visione del mondo costituisce un fatto personale, ma anche comunitario, trasmesso e condiviso da altre persone, da diversi gruppi, o anche dall'intera società. Le comunità religiose sono portatori eminenti della visione comunitaria del mondo. Quindi, la sana laicità dello Stato significa proprio che le autorità statali e politiche, anche quelle internazionali o continentali, non possono pretendere di definire la visione del mondo dei cittadini, ma devono fare riferimento agli elementi portatori di questi valori della società, nel quadro di una chiara sussidiarietà.

Ma è possibile arrivare in base a questa visione del mondo a un denominatore comune che possa offrire il minimo necessario per la coesistenza e la collaborazione delle persone e dei popoli? Secondo la convinzione cristiana, tutti gli uomini possono conoscere le verità essenziali su Dio attraverso la realtà creata. Crediamo quindi nella forza conoscitiva umana anche riguardo ai principi fondamentali della vita. Questa è la base anche della morale rivelata. La grazia, anche in questo ambito, presuppone la natura. La condizione di una sinfonia riguardo ai principi fondamentali della moralità nei diversi Stati è quindi, la conoscenza e il riconoscimento -- aperto anch'esso verso il progresso delle ricerche e del ragionamento -- della piena realtà delle cose oggettivamente esistenti. La verità, quindi, ci libera anche riguardo alla vita sociale. Così si delinea la possibilità di un equilibrio tra una «sana» laicità dello Stato, basata sulla sussidiarietà, nelle questioni della visione del mondo, e la possibilità di un consenso largo circa diversi principi fondamentali. Proprio questa ricerca di equilibrio può essere un compito storico dell'Europa multiculturale. E in questo contesto, i cristiani del continente che vent'anni or sono ha ritrovato molti valori della propria unità, sono chiamati a rendere testimonianza della piena verità di Cristo, della speranza che vuol aprirsi a tutti e che invita tutti a una comune riflessione. Nuova evangelizzazione quindi, nel contesto della pluralità, del mutuo rispetto, e soprattutto, dell'apertura ecumenica, la quale deve rendere più forte la voce del Vangelo con la comune testimonianza e che deve essere una palestra del dialogo che ci prepara anche al dialogo con le altre religioni e con i non credenti nello spirito della carità e nella verità.

(©L'Osservatore Romano - 21 agosto 2010)

giovedì 13 maggio 2010

‘No’ del Consiglio d'Europa al divieto totale del burqa

Un parere che farà discutere, quello espresso dal Consiglio d’Europa in tema di velo islamico. Un divieto generalizzato a portare il burqa o il niqab – secondo l’organizzazione paneuropea - negherebbe alle donne che desiderano genuinamente e liberamente coprirsi il volto il diritto a farlo e potrebbe anche essere una violazione del loro diritto alla libertà religiosa garantito dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo. E' quanto si legge nel rapporto dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa su Islam, islamismo e islamofobia, che sarà portato al voto in aula nel prossimo mese di giugno. I Governi europei - suggeriscono i parlamentari del CdE - , piuttosto che proibire per legge di indossare burqa e niqab, dovrebbero cercare di rendere consapevoli le donne musulmane dei loro diritti e incoraggiarle a prendere parte alla vita pubblica e professionale. E questo coinvolgendo anche le famiglie e le comunità. I parlamentari sottolineano che il divieto a portare certi indumenti non può essere totale, ma va limitato a quelle situazioni in cui l'ordine pubblico, la sicurezza, oppure la professione della donna lo richiedono. Pochi giorni fa il Parlamento belga ha dato un primo via libera alla legge che impone il divieto assoluto del burqa nei luoghi pubblici e un analogo provvedimento dovrebbe essere esaminato dal Parlamento francese il prossimo luglio.
[Fonte Radio Vaticana 13 maggio 2010]

lunedì 10 maggio 2010

Il "Domino" di Eurolandia. Il gioco pericoloso partito dalla Grecia

Il domino è un gioco che per sua natura non si ferma. Secondo l'abilità e/o la fortuna dei giocatori, finisce quando tutte le tessere sono a terra, o comunque quando lo sono la maggior parte. Per poi, volendo, ricominciare con la certezza che tempo e impegno per rimetterle in piedi sono molto maggiori dei pochi istanti necessari per la loro caduta.
Per alcuni, non certo da oggi, domino è anche il gioco speculativo che fa crollare economie pericolanti, gonfiare e sgonfiare le borse, fallire e risorgere imprese grandi e medie. Più che un gioco, un lavoro, che garantisce guadagni (e perdite) enormi via telematica. Negli ultimi mesi assistiamo a quella che ha tutta l'aria di essere una grande partita di domino con le economie europee al posto delle tessere, con al centro i Paesi senza tradizione industriale e con in palio la testa dell'Euro. La Grecia annaspa per sopravvivere con un salvagente firmato Fondo monetario internazionale sulla cui tenuta nessuno scommette. Il Portogallo la segue a breve distanza, e le voci circa la situazione analoga di Spagna, Italia e Regno Unito stanno aumentando di volume e plausibilità.
Intendiamoci: il domino - per quanto speculativo e scorretto sia - non si imbastisce su economie sane. La Repubblica greca da circa vent'anni presenta a Bruxelles bilanci maquillage per buona pace del Patto di Stabilità e della virtuosità della moneta unica. "Furbi" da un lato, ma "furbi" anche dall'altro se si pensa che l'Unione europea (Commissione, Consiglio, Banca centrale) ha sempre preso per buoni i dati ellenici. Triste è rendersi conto che nessuno ha mai pensato che il domino silenzioso che oggi è in prima pagina colpisce milioni di persone che vivono e lavorano onestamente e che ora (sic!) sono chiamate a pagare colpe altrui sulle quali ovviamente gli speculatori si buttano a pesce. Punire i responsabili politici e bancari della bancarotta sarebbe opportuno oltre che giusto, ma è politicamente realistico? Una raddrizzata si impone, ma attenzione a "farla pagare" a chi sopravvive con 1.200 euro al mese vedendo a destra e a sinistra sprechi, illegalità e ostentazioni di ricchezza di dubbia provenienza. E attenzione a concentrarsi solo sul recupero del debito senza porre basi salde per politiche di sviluppo.
Il domino, dicevamo, si annuncia in espansione. Portogallo e Spagna non sono da meno della Grecia: certo, hanno un servizio pubblico più efficiente, ma le bolle borsistiche e le sovraesposizioni debitorie delle banche sono un dato di fatto. Un sentimento umano di solidarietà impone preoccupazione per la sorte di milioni e milioni di famiglie.
Ma vi è un altro elemento da prendere in considerazione. La zona dell'Euro annovera tuttora tra i propri principi fondamentali la protezione delle economie che vi partecipano dagli attacchi esterni: per la stabilità finanziaria e la tenuta economica. Così è stato fino ad oggi, con discreto successo malgrado l'aumento dei prezzi non sia stato mai accompagnato da un aumento corrispondente del potere d'acquisto. Ora però gli attacchi speculativi ai Paesi euro sono eclatanti, aperti… e vengono in gran parte dall'interno di Eurolandia. Un domino impazzito, senza capo e senza coda. Oppure qualcos'altro? Ed ora che le tessere potrebbero crollare anche nella parte occidentale del Mediterraneo, o addirittura anche oltremanica, cosa dobbiamo attenderci?
Risposte non facili. Facile è però individuare le vere vittime di tutto questo: l'onestà e la dignità di chi è estraneo ai giochi ma ne paga le conseguenze. La maggioranza dei cittadini. Nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione Schuman è a loro che dobbiamo pensare, che devono pensare governanti, finanzieri ed economisti: le statistiche non hanno famiglia, le persone sì.
Gian Andrea P.Garancini
Bruxelles
[Fonte: SIR 10 maggio 2010]