sabato 7 gennaio 2012

Le radici della crisi dell'Unione Europea 1991-2011

La crisi economica, sociale e politica che l’Unione Europea oggi vive è sotto gli occhi di tutti. Tra pochi giorni ricorrerà il ventesimo anniversario della firma del Trattato di Maastricht (firmato l’ 11 dicembre 1991) da cui l’Unione Europea ebbe origine. Il prof. Roberto de Mattei, allora presidente del Centro Culturale Lepanto, e oggi della Fondazione Lepanto, esprimeva, tra i primi in Europa, le sue critiche al Trattato di Maastricht in una lettera consegnata a Strasburgo, a tutti i parlamentari europei, l’11 maggio del 1992, alla vigilia del discorso della regina Elisabetta di Inghilterra al Parlamento Europeo.

Lo stesso testo veniva fatto pervenire, ai parlamentari italiani riuniti in seduta congiunta in elezione del Presidente della Repubblica (il documento fu pubblicato integralmente in « Lepanto », nn. 122-123 (maggio-giugno 1992), pp. 3-11).

La lettura di questa analisi, che precedette di quasi 10 anni l’entrata in vigore dell’Euro, invita a riflettere sul nostro futuro.(maggio-giugno 1992), pp. 3-11).

Lettera ai Parlamentari europei del prof. Roberto de Mattei
Roma, 11 maggio 1992

Egregio onorevole,

a nome del Centro Culturale Lepanto, che ho l’onore di presiedere, vorrei sottoporre alla Sua attenzione alcune riflessioni a proposito di un importante dibattito che Ella e i suoi colleghi avete affrontato e dovrete ancora affrontare (l).

Mi riferisco al Trattato di Maastricht, stipulato l’11 dicembre 1991 nella cittadina olandese dai Capi di Stato e di Governo dei dodici Paesi della Comunità europea per avviare la nuova organizzazione internazionale denominata “Unione europea”.

Questo Trattato, che è stato formalmente sottoscritto il 7 febbraio 1992 e che, per entrare in vigore, dovrebbe essere ratificato dai rispettivi Parlamenti nazionali entro il 31 dicembre di quest’anno, sta suscitando un po’ ovunque crescenti dubbi e perplessità: unirà e rafforzerà veramente l’Europa, o la disgregherà, precipitandola nel caos? Lo scopo di questa lettera, è di contribuire ad una discussione su questo punto capitale.

Il sogno nichilista di distruzione dell’Europa

In questo 1992 che segna il 500° anniversario della scoperta e della civilizzazione dell’America da parte degli europei, la Civiltà europea e cristiana è sottoposta a un processo senza precedenti. L’Europa è accusata di aver imposto al mondo il suo modello di civiltà, in luogo di “aprirsi all’Altro”, “a ciò che non è, non è mai stato e non sarà mai l’Europa”(2); essa dovrebbe dunque rinnegare sé stessa per recuperare la “Alterità” che ha negato: i barbari, gli indios, i musulmani, sarebbero portatori di un “messaggio culturale” incompreso. L’Europa dovrebbe perciò rinunciare alla “ambizione secolare di centralità storica di cui Colombo è il simbolo”(3) per “decivilizzarsi” e sprofondare nel tribalismo.

Nella visione della storia, elaborata da questi “teorici del caos”, il fondamento dell’Europa sarebbe “la perdita dei fondamenti” (4), la sua caratteristica quella “di non essere identica a sé stessa” (5). Nessuna identità storica e culturale meriterebbe di sopravvivere perché nel mondo nulla esiste di stabile e di permanente e tutto è privo di ordine e di significato: il Nulla è l’unica realtà che si deve affermare nella storia e nella società: “Dobbiamo riconoscere il ruolo storicamente positivo del Nulla /…/ Siamo incitati a fondare la nostra cittadinanza europea in rapporto al nulla” (6).

La vera natura del Trattato di Maastricht

Queste tesi nichilistiche sull’Europa, esposte in riviste, libri e convegni, amplificate dai mass media e abbondantemente riecheggiate dagli uomini politici, non vanno ignorate né dimenticate nell’affrontare la discussione su un accordo politico così ambizioso come il Trattato di Maastricht.

Non si tratta di schierarsi genericamente pro o contro l’Europa, ma di affrontare il vero problema di fondo: a quale Europa ci richiamiamo? Qual è l’Europa prevista dal Trattato di Maastricht? I trattati politici e diplomatici non si riducono infatti a formule tecniche ma riflettono modelli politici, visioni del mondo e aspirazioni ideali.

Quali, in questo caso?

Non è solo un mercato unico…

Per l’uomo della strada, l’Unione europea si riduce al grande mercato senza frontiere, ossia all’unico “mercato interno” europeo realizzato attraverso la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.

Quest’uomo comune europeo, che rifugge da discussioni e impegni profondi per vivere immerso nei problemi di ogni giorno, diffida dei politici, ma nutre ancora una certa fiducia verso il pragmatismo degli economisti; il fatto che l’Europa unita sia oggi patrocinata dai “tecnici” dell’economia, lo tranquillizza ed egli è tentato a vedere in essa la possibile soluzione dei gravi mali economici e sociali che affliggono ormai cronicamente tutte le nazioni occidentali.

In realtà, il primo equivoco di fondo da dissipare, è proprio quello di ritenere che l'organizzazione internazionale prevista a Maastricht si limiti ad una unione economica, destinata ad assicurare maggiori vantaggi e benefici ai suoi membri.

Ciò è evidente fin nelle prime pagine del Trattato, dove, a sottolineare la novità, al tit. II, art. G A I si precisa che “l’espressione ‘Comunità economica europea’ è sostituita dall’espressione ‘Comunità europea’”.

Qual è il senso di questa precisazione? Quello di sottolineare il progressivo passaggio da un’unione meramente economica ad un’unione innanzitutto politica; l’unificazione economica è un mezzo, quella politica il fine.

… ma è un processo politico e culturale

La prima caratteristica del Trattato di Maastricht che balza agli occhi è la sua processualità. L’accordo prevede infatti, a partire dallo gennaio 1993, una serie di tappe diverse, rigorosamente concatenate e stabilisce il “carattere irreversibile” (7) della transizione all’ultima fase, entro il l° gennaio 1999.

Occorre spingere lo sguardo verso la mèta finale, perché è da essa che traggono significato le fasi precedenti. E se la fase iniziale è economica, l’ultima conclude un processo di profonda trasformazione politica dell’Europa. Qual è la natura di questa trasformazione? Ebbene, affermiamo senza timore di essere smentiti, pronti ad un aperto dibattito intellettuale su questo punto: il progetto di Maastricht non innesca un processo di unificazione europea, ma un processo di disgregazione degli Stati nazionali: e poiché l’Europa non può prescindere dagli Stati nazionali, che ne costituiscono l’ossatura, la liquidazione di questi Stati equivale alla distruzione dell’Europa condotta in nome dell’Europa stessa!

Verso il caos economico?

La prima fase del processo di unificazione di Maastricht prevede, a partire dallo gennaio 1993, la caduta delle frontiere politiche ed economiche all’interno della Comunità e la creazione di un grande mercato unico europeo. Ma quali saranno le conseguenze di questa vera e propria svolta economica del nostro continente?

Quasi tutte le nazioni europee producono merci di eccellente qualità, dai vini ai tessuti. Generalmente ogni nazione è la principale consumatrice dei propri prodotti; per evidenti ragioni economiche, ciò è favorito dalle misure di protezione doganale prese dai rispettivi governi. Se tali misure vengono soppresse, è inevitabile che la curiosità propria dell’uomo spinga i consumatori nazionali a sperimentare i prodotti provenienti da altre nazioni. Con la soppressione delle barriere doganali in tutta Europa, circoleranno e si consumeranno i prodotti economici di tutta Europa. In tal modo, nessuna industria manterrà la certezza di una base economica nel Paese in cui è impiantata e comincerà una disputa tra le industrie di ogni Paese, per mezzo della propaganda pubblicitaria, per conquistare nuovi mercati o per difendere quelli tradizionali. I formaggi francesi, la birra tedesca e la pasta italiana non sono solo prodotti commerciali, ma simboli di culture e di tradizioni diverse: la guerra economica, combattuta con gli strumenti della moderna tecnica pubblicitaria, tenderà a divenire psicologica e politica. Il mercato comune assomiglierà ad un campo di battaglia, piuttosto che a un centro di aggregazione.

I mercati più deboli saranno invasi da capitali, merci e servizi stranieri ben più competitivi. Sopravviveranno solo le imprese maggiori, capaci di darsi una dimensione multinazionale; alle piccole resterà l’alternativa di accorparsi alle grandi, in posizione subordinata, oppure di fallire.

Come abbiamo già previsto, commentando il “progetto Delors”, “ciò che rende ancora più preoccupante lo scenario è il fatto che questo cataclisma verrà imposto dall’alto, artificialmente e a brevissimo termine, sorprendendo i più deboli nell’impreparazione generale. E’ comunque facile prevedere che esploderà una concorrenza selvaggia che seminerà il caos nell’economia europea; nel Mercato Comune si combatterà una battaglia senza esclusione di colpi. L’Europa, priva dei punti di riferimento fin qui rappresentati dalle frontiere nazionali e dalle barriere doganali, potrebbe cadere vittima di un caos economico generalizzato e devastatore” (8).

L’esproprio della sovranità monetaria

Le tappe successive previste dal Trattato di Maastricht sono:

- IIa fase (a partire dal 1° luglio 1994): Creazione di un Istituto Monetario Europeo (IME) costituito dalle Banche centrali dei Paesi membri, come passaggio intermedio per la successiva

- IIIa fase (a partire dal 1997 e comunque entro il 1° gennaio 1999) che a sua volta prevede:

a) Costituzione di un Sistema europeo di banche centrali (SEBC), comprendente le singole Banche centrali nazionali e una Banca Centrale Europea (BCE), che diverrebbe il detentore e gestore esclusivo delle riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri (Tit. II, art. 105.2).

b) Creazione di una moneta unica puramente fiduciale, l’ECU (Tit. II, art. 3 A), destinata a sostituire le monete nazionali. La BCE costituirebbe l’unica istituzione abilitata ad esercitare una prerogativa tipica dello Stato, quale l’emissione di moneta.

In particolare, secondo il Trattato, non sono i governi e i parlamenti, ma è la Commissione, attraverso la Banca Centrale Europea, a stabilire gli indirizzi di massima per la politica economica dei singoli Stati nazionali (Tit. II, art. 103.2); la BCE è l’unica istituzione che può autorizzare l’emissione di banconote e stabilire la loro quantità (Tit. II, art. 105 A). Il Consiglio può addirittura infliggere sanzioni attraverso l’imposizione di ammende, l’imposizione di un deposito infruttifero invitando la Banca Europea degli Investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso quel paese (Tit. II, art. 104 C).

La perdita parte degli Stati europei della sovranità economica e monetaria significa in realtà la cessione di un elemento essenziale della sovranità politica. Si tratta di un punto che aveva ben compreso l’ex premier britannica Margaret Thatcher, la quale più di una volta ha esposto il concetto secondo cui “se si perde la sovranità monetaria e di bilancio, non è molta la sovranità che rimane” (9).

L’esproprio della sovranità politica

L’autorevole voce della Bundesbank ha recentemente ricordato come creare con un atto di autorità una moneta unica europea può essere facile; ben più difficile è assicurare la stabilità monetaria in Europa: a ciò occorrono condizioni economiche, politiche e psicologiche complesse (10). Come immaginare una efficace unificazione economica e monetaria dell’Europa, se manca quella cornice giuridica e politica comune che sola può regolare problemi come quelli dell’immigrazione, della droga e della criminalità organizzata, e assicurare in tal mondo le condizioni necessarie alla stabilità economica e monetaria?

Per realizzare queste condizioni giuridiche e politiche, il Trattato prevede “il ravvicinamento delle legislazioni nazionali nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune” (Tit. II, art. G 3 H). Questa armonia politica e legislativa costituisce certamente in sé un bene a cui tendere, quando non violi il diritto naturale, ma non può essere imposta da un vertice burocratico, con il pretesto della necessità di far funzionare il mercato comune. Ciò significherebbe sottrarre agli Stati nazionali il loro diritto a governare la società civile. La sovranità è il contrassegno essenziale di uno Stato. Essa può essere definita come la suprema autorità che lo Stato deve avere, nell’ambito che gli è proprio, per raggiungere il suo fine, che è il bene pubblico dei cittadini (11), ossia la loro vita virtuosa in comune (12). Lo Stato può delegare alcune competenze, in base al principio di sussidiarietà, ma non può eliminare in radice la propria sovranità, come accadrebbe al termine del processo di unificazione di Maastricht. Ciò significherebbe la scomparsa degli Stati nazionali.


La mèta: megastato europeo e microstati regionali

Questo trasferimento di poteri e di competenze fin qui attribuite ai governi e ai parlamenti nazionali, avverrebbe secondo due linee direttive: da una parte verso le istituzioni sovranazionali, cioè verso il “megastato” europeo, dall’altra verso le realtà comunali e regionali, che tenderebbero a divenire veri e propri microstati. Su questa linea si pone l’istituzione di un “Comitato delle Regioni” (Tit. II, art. 198 A), destinato ad assistere il Consiglio e la Commissione, che costituirebbero il “supergoverno” del “megastato”.

Ciò, come ha spiegato il presidente della Commissione europea Jacques Delors parlando il 5 ottobre 1989 al Wissenschaftszentrum di Bonn, “nella sua essenza significa che i poteri del governo centrale sono divisi con quelli delle collettività territoriali pre-esistenti”.

Questo progetto realizza il piano esposto qualche anno fa dal socialista Peter Glotz, nel Manifesto della Sinistra europea nel quale auspicava “il superamento dello Stato nazionale in Europa” che “non dovrebbe avvenire soltanto attraverso una unificazione transnazionale, ma anche attraverso la regionalizzazione e il decentramento” (13) e si indicava “la creazione di una Unione europea” (14), come “prospettiva di lunga scadenza dell’unificazione europea”.

Si tratta della versione aggiornata della grande mèta della Sinistra che è sempre stata e resta l’anarchia, ossia il “mondo nuovo”, destinato a sorgere, per usare le parole di Bakunin, “sopra le rovine di tutte le Chiese e di tutti gli stati” (15). Per questo, afferma lo stesso Bakunin, “i socialisti rivoluzionari si organizzano in previsione della distruzione o, se si vuole una parola più gentile, in vista della liquidazione degli stati” (16) “affinché sulle loro rovine, possano sorgere libere unioni organizzate dal basso grazie alle libere federazioni dei comuni in provincie, delle provincie in nazioni, delle nazioni negli Stati uniti d’Europa” (17).

Una bomba ad orologeria: la cittadinanza europea

In questa prospettiva disgregatrice si situa un capitolo del Trattato di Maastricht che costituisce una vera e propria bomba ad orologeria nel cuore del nostro continente: la attribuzione di una “cittadinanza europea” a ogni cittadino dei diversi Stati nazionali in via di liquidazione.

Il problema della cittadinanza, nazionale od europea, non può essere affrontato senza tener conto dello scenario contemporaneo. Il fallimento del socialcomunismo ad Est e l’altrettanto colossale fallimento della decolonizzazione a Sud hanno aperto un flusso di massicce migrazioni verso l’Europa. Mancano statistiche pienamente attendibili sulla reale consistenza di questa immigrazione; quel che è certo è che si tratta di un fenomeno in aumento, che si accompagna a un preoccupante declino demografico del nostro continente. Non si tratta comunque di un problema secondario se, nel novembre 1991, i ministri di ventisette paesi europei hanno ritenuto necessario incontrarsi a Berlino per discuterlo.

Il Trattato istituisce una “cittadinanza dell’Unione europea” attribuita a “chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro” (Tit. II, art. 81). Tra gli Stati membri dell’Unione però, per quanto riguarda la concessione della cittadinanza agli immigrati di provenienza extra-comunitaria, non esiste attualmente omogeneità legislativa: esistono legislazioni più aperte ed altre più restrittive. Non è difficile immaginare che i flussi migratori si dirigerebbero verso gli Stati dove l’accesso alla cittadinanza fosse più facile, per poi spostarsi per via “intra-comunitaria”, verso quelli che hanno le frontiere “extra-comunitarie” meno elastiche.

Si dirà che questo è uno dei punti su cui è prioritario il riavvicinamento delle legislazioni nazionali previsto dal Trattato; ma se si è così certi che questo riavvicinamento non tarderà, perché non prevedere l’istituzione della cittadinanza dell’Unione solo dopo l’avvenuta uniformità legislativa tra gli Stati?

Gli immigrati alla conquista delle strutture politiche

Ogni cittadino dell’Unione, secondo l’art. 8 A 1 del Trattato, ha “il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”. La reale portata di questo articolo emerge alla luce di quello seguente, che attribuisce, ad “ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino”, “il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato” (Tit. II, art. 8 B 1) ed “il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede” (Tit. II, art. 8 B 2) con modalità che verranno stabilite dal Consiglio Europeo rispettivamente entro il 31 dicembre 1994 ed il 31 dicembre 1993.

Queste le prevedibili conseguenze:

a) Il primo obiettivo del migrante extracomunitario sarà quello di ottenere la cittadinanza dell’Unione. Perciò, in assenza di una legislazione rigorosamente uniforme, egli sceglierà il Paese che consente un più facile accesso alla cittadinanza nazionale: questa, automaticamente, comporta la cittadinanza europea.

b) Una volta ottenuta la cittadinanza europea, il secondo passo, sarà quello di spostarsi, in base all’ assoluto diritto di circolazione, verso il luogo di residenza prescelto nel territorio dell’Unione, dove eserciterà i diritti politici.

c) Il diritto di elettorato attivo e passivo di cui fruirà nel luogo di residenza, permetterà al migrante di inserirsi nelle strutture politiche europee a livello locale e a livello sovranazionale, gli unici due livelli politici di rilievo, una volta dissolti gli Stati nazionali.

L’Islam egemone in Europa?

Non si può ignorare che una larga parte degli immigrati extracomunitari è di religione islamica, e che l’Islam non conosce la distinzione cristiana tra ordine naturale e ordine soprannaturale, tra sfera civile e sfera religiosa, ma fonde il sacro e il profano in un’unica prospettiva totalizzante (18).

Gli esponenti islamici in Europa già chiedono che la loro religione goda della stessa tutela che le legislazioni nazionali riconoscono ad altre comunità religiose; ciò significa: riconoscimento civile della poligamia, insegnamento islamico nelle scuole, esonero dal lavoro nelle festività maomettane, e così via.

Il giorno in cui milioni di islamici otterranno la cittadinanza dell’Unione europea è logico immaginare che essi si organizzeranno in un movimento politico, che presenterà i suoi candidati nelle elezioni comunali e nel Parlamento europeo.

Secondo il Trattato sono i partiti politici europei “ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione” (Tit. II, art. 138 A); un “Partito Islamico Europeo”, per la sua capillare diffusione in tutti i territori della Unione, per la sua forza di coesione, allo stesso tempo politica e religiosa, per i suoi mezzi finanziari e per i suoi collegamenti internazionali potrebbe diventare il partito leader del Parlamento europeo; ciò significherebbe l’egemonia politica dell’Islam in Europa, pacificamente conquistata, anzi pacificamente ceduta dagli stessi europei.

Sul piano comunale, inoltre, come escludere la possibilità della concentrazione di un massiccio gruppo di immigrati in qualche città o regione europea?

Chi potrebbe impedire a questi cittadini europei, che godono del diritto di circolazione, di soggiorno e di elettorato, di scegliere una delle città europee più ricche di storia o di significato, per farne una “isola islamica” ed elevarvi i loro minareti?

Per uscire dal caos: salvare gli Stati nazionali

Queste ipotesi si inquadrano in uno scenario inquietante.

L’economia occidentale, che come ha recentemente scritto il premio Nobel francese Maurice Allais, “poggia su una gigantesca piramide di debiti” (19), rivela ogni giorno di più la sua estrema vulnerabilità; problemi sociali come quelli della criminalità e della droga rivelano il profondo vuoto culturale e morale della nostra società; da Est una gigantesca spinta disgregatrice conseguente alla autodecomposizione del comunismo si allarga verso l’Occidente disseminando fermenti di dissoluzione; l’Islam proietta un’ombra preoccupante sull’Europa; il caos minaccia oggi il nostro continente come mai nella sua storia, dal tempo delle invasioni barbariche…E’ ragionevole, in questa situazione, proporsi la liquidazione degli Stati nazionali per avanzare verso un’Unione europea dai contorni così nebulosi e confusi? Gli Stati nazionali costituiscono attualmente l’unico fattore di ordine e di stabilità, nel processo di disgregazione che investe l’Europa, e pensare a dissolverli, proprio in questo momento, costituisce un suicidio politico che ricorda quello compiuto dalla monarchia e dalla nobiltà francese nel 1789.

L’Europa al bivio: suicidio o rinascita cristiana

Egregio onorevole, l’Europa si trova oggi di fronte a un bivio storico.

La ratifica del Trattato di Maastricht innescherebbe un processo di rapida liquidazione degli Stati nazionali; ma ciò significherebbe la disgregazione dell’Europa, che precipiterebbe nell’anarchia e nel tribalismo. Si tratta di un vero e proprio itinerario suicida, coerentemente rivendicato dai teorici della Nuova Sinistra.

D’altra parte, il rifiuto del processo disgregativo di Maastricht costituisce un passo necessario per la rinascita dell’Europa.

Se la parola Europa evoca oggi memorie e speranze è perché essa è già una realtà: una realtà che non viene “inventata” a Maastricht nel 1991, ma che è nata a Roma nella notte di Natale dell’anno 800, con il Sacro Impero di Carlo Magno, e, prima ancora, a Subiaco e a Montecassino, da dove si irradiò la riforma religiosa di san Benedetto da Norcia (20).

Parafrasando le parole di san Pio X nella celebre lettera apostolica Notre Charge Apostolique (21) e quelle di Leone XIII nell’altrettanto celebre enciclica Immortale Dei (22), potremmo dire che l’Europa “non è da inventare”, ma “è esistita ed esiste tuttora”, è la Civiltà cristiana, un tempo unita, pur nella diversità delle sue nazioni, e nella peculiarità dei suoi costumi e delle sue tradizioni, da un’unica filosofia di vita: quella del Vangelo. “L’Europa – conferma Giovanni Paolo II – è cristiana nelle sue stesse radici /…/ Nelle diverse culture delle Nazioni europee, sia in Oriente sia in Occidente /…/ scorre una sola comune linfa attinta ad un’unica fonte” (23). La difesa della nostra Civiltà, occidentale e cristiana, passa attraverso la difesa di queste nazioni e di queste tradizioni. N ella varietà degli Stati nazionali europei si esprime infatti la ricchezza culturale dell’Europa e la sua identità storica e morale.

Il processo rivoluzionario che da oltre cinque secoli ha investito la Civiltà cristiana (24) rappresenta una negazione radicale di questa Europa, della sua identità e della sua storia: l’esito ultimo e coerente di questo processo è il nichilismo anarchico e tribale della Nuova Sinistra.

Un trattato intoccabile?

Il Trattato di Maastricht non è “intoccabile”, così come il processo di unificazione europea in corso non può e non deve essere considerato come un processo “irreversibile”. Già oggi del resto non lo è per la Gran Bretagna e per la Danimarca, che si sono riservate il diritto di non passare alla “terza fase”.

Ci sembra importante sottolinearlo: se c’è un mito oggi in frantumi, è quello della “irreversibilità storica”, cioè di una presunta linearità degli avvenimenti di cui solo a qualche “avanguardia” è dato cogliere il senso. Quando un socialista parla di “irreversibilità storica”, il pensiero corre immediatamente alla interminabile serie di profezie fallite che hanno caratterizzato la storia della sinistra europea negli ultimi due secoli; ma i socialisti, eredi degli Illuministi e di Hegel, continuano a presentarsi come i pervicaci interpreti del “senso della storia”. Quando si parlava di unificazione tedesca, Willy Brandt profetizzava che non sarebbe avvenuta prima della fine del secolo (25); oggi che si parla di unificazione europea, Mitterrand profetizza che entro la fine del secolo inevitabilmente avverrà. Il fondamento di queste profezie è sempre il medesimo: il nulla. L’unica seria previsione che si può fare in questo scorcio di secolo è quella della fine delle false profezie socialiste e del trionfo, questo sì irreversibile, della verità; è in nome di questa verità che ci rivolgiamo a Lei, per chiederLe di intervenire, in una sede così autorevole e significativa quale è il Parlamento europeo, per combattere lo spirito e la lettera del Trattato di Maastricht.

E’ davanti all’opinione pubblica europea che chiediamo la Sua collaborazione, e Le offriamo la nostra, nella ferma convinzione che oggi tutte le forze debbano unirsi nella difesa degli Stati nazionali, dell’Europa e della Civiltà cristiana, così gravemente minacciate dal nichilismo e dal caos, e nella altrettanto ferma certezza che non vi è altra forza su cui fondare questa battaglia, al di fuori di Colui, senza il quale nulla possiamo (Gv. 15, 5), ma con il cui aiuto tutto è possibile (Fil. 4, 13), anche la resurrezione di una gloriosa Civiltà, quale fu e sarà, nel secolo XXI, l’Europa.

Roberto de Mattei
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[Fonte: “Fondazione Lepanto”]