Messaggio di fine anno del Presidente di tutti gli italiani, in pectore e in coelis, il patriota Dante Alighieri.
Italiane e italiani, beati e dannati, amatissimi e scelleratissimi! Al termine del mio settecentenario, più importante del settennato presidenziale di un qualsiasi mattarello di passaggio, rivolgo a voi un messaggio augurale che è insieme uno sprone e un’invettiva, come si addice al mio carattere spigoloso e alla vostra fetida situazione.
Per tutto l’anno trascorso ho ascoltato in silenzio ciò che avete detto di me per la ricorrenza del mio transito terrestre. Ne ho sentite tante, di valore diseguale, sul mio conto, ho visto come mi avete ridotto e deformato, e ho dovuto sopportare i tentativi di adeguarmi alle vostre fisime e ai vostri pregiudizi, che non sono certamente i miei. Ho dovuto subire pure l’affronto di vedermi rappresentato da un giullare di Stato, quel Benigni spacciato per mio erede solo perché è tosco pure lui, e quasi fiorentino. Qualche pittore mi ha perfino dipinto col suo volto.
Muto e sconcertato ho assistito pure allo scempio che avete fatto di voi e del vostro Paese in quest’anno dantesco, consegnandovi interamente – anima e corpo, mente e territorio ̶ ai draghi della finanza e agli stregoni della medicina, che chiamate curiosamente virologi; ai miei tempi, che pure erano disgraziati, c’erano i probiviri ma di virologi non si vedeva ombra, anche se non mancavano la peste e altre epidemie.
Sui draghi della finanza avvertì la loro presenza all’Inferno, dove vidi che “Sovra le spalle, dietro de la coppa, con l’ali aperte li giacea un draco” e poi nel Purgatorio, quando la terra si aprì e “vidi uscirne un drago”. Ma voi vi siete consegnati docilmente ai draghi e vi siete lasciati conquistare dalle sue lingue fiammeggianti.
Quanto alla sanità, per tutto l’anno non avete parlato d’altro che di pandemia, di vaccini e infetti; ne avete fatto una malattia ben più grave dell’epidemia. Vi hanno perfino sostituito il voto col tampone, è la nuova consultazione popolare e periodica a cui vi sottoponete per mantenere la cittadinanza e i diritti.
Ora ho deciso di rompere il silenzio e per parlarvi in un linguaggio a voi comprensibile, mi sono avvalso di un traduttore nel vostro volgare (“ed un Marcel diventa ogne villan che parteggiando viene”); mi ha assicurato che avrebbe affidato il mio messaggio alla Verità ed io sono stato contento.
Mi rivolgo a voi, italiani illustri e meschini, non tanto in veste di sommo poeta quanto di sommo patriota, perché qualcuno di voi invocò di recente una figura simile per la guida dell’Italia dal Colle quirinalizio. Mi fa specie farvi notare ̶ per usare un’espressione cara al mio collega milanese Lisander, al secolo Manzoni ̶ che il primo patriota d’Italia, quale modestamente fui, fu scacciato dalla sua patria natia, tenuto in esilio per il resto della vita sua, condannato all’ignominia per tutti gli anni del suo dolente peregrinare, vituperato pure in morte con damnatio memoriae e bruciate le sue opere, nel nome della Santa Madre Chiesa e della Santa Fede; opere che pure erano ispirate a Dio, all’amor patrio e alla luce della Santa Sapienza. Non perdonarono la mia dottrina nascosta “sotto l’velame de li versi strani” né la mia teologia politica; non perdonarono le mie posizioni civiche e non mi perdonarono d’aver messo all’inferno qualche Papa e qualche vescovo o cardinale; e di aver cantato con malcelata simpatia di qualche pagano e di qualche peccatore. Questo per dirvi quanto sia vana la pretesa di avere un patriota nella sede suprema della vostra repubblica; in Italia esser patrioti è una colpa, non certo un merito; vi aprono le porte dell’inferno non certo del Quirinale. E non c’è capolavoro che passi la censura o la condanna all’oblio se contravviene alle regole del clero dominante e alle sue meschine prescrizioni.
In vita mi definivo nelle epistole, “umile italiano ed esule senza colpa”; ma mi rendo conto che oggi, più che umile mi sentirei umiliato, e più che esule senza colpa sarei esule senza rimorso. Giacché vedo spegnersi ogni raro sussulto di dignità sovrana e d’onore italico, ogni conato d’amor patrio e amor di verità; vedo oggi più di ieri l’Italia dominata da una turba al vil guadagno intesa, che orgoglio e dismisura han generato, mentre la gente nova si preoccupa della propria pelle prima che della propria anima, ed è pronta a barattare la mente per la salute e la dignità dei suoi diritti per ottenere un miserabile lasciapassare di breve durata col permesso di gozzovigliare in semi-libertà. Cervelli portati all’ammasso, greggi condotte al vaccino come un tempo si conducevano al macello, spiedini di vitelli alla terza dose. Uomini siate, non pecore matte, avevo vanamente ammonito. E mentre il popolo viene trafitto, sorvegliato e punito, l’Italia è fatta a pezzi, svenduta in tranci, ceduta, invasa e colonizzata dallo straniero.
Perciò compatrioti cari e infami, vi ringrazio di aver commemorato il mio anniversario ma vi prego di non tirarmi più dentro alle vostre storie e al vostro stivale. Preferisco restar fuori, non ragionar di voi, ma guardare e passare oltre, fingermi straniero e trapassato piuttosto che far parte di quel circo.
Per una vita mi avete tenuto fuori dalla patria mia ed io vanamente sognai di rientrarvi, ma ora che mi spalancate le porte sono io che non voglio più tornare. Meglio esule che male accompagnato. Lasciatemi in cielo a rimirar le stelle.
Marcello Veneziani, La Verità (31 dicembre 2021)
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