martedì 14 aprile 2020

Che fine faremo? “Tutti a casa” è lo slogan regressivo e autoritario del “madurismo” italiano

In un mese di “lockdown” all’italiana – fondato sulla parola d’ordine “tutti a casa” e sul blocco di quasi tutte le attività imprenditoriali e commerciali – i contagi da Covid-19 sono aumentati di 15 volte, i morti di 20.
L’incidenza di casi e di vittime sulla popolazione resta di gran lunga la più alta nel mondo, con l’unica parziale eccezione della Spagna (e al netto naturalmente dei sempre inaffidabili dati cinesi). Questo vuol dire che le misure restrittive italiane – le più repressive sulle libertà individuali e le più distruttive nei confronti dell’economia adottate in tutto il mondo, con l’eccezione non della Cina, ma della sola provincia di Hubei – non sono state molto efficaci. Certo, la curva dei contagi, almeno nella seconda metà del mese, si è appiattita: casi raddoppiati, contro una moltiplicazione di 7 volte nei 15 giorni precedenti. Ma resta la domanda di fondo: come è possibile che, in questo deserto che è diventato l’Italia, il virus abbia continuato e continui a circolare così tanto, smentendo regolarmente il comitato tecnico-scientifico che parlava di imminenti effetti decisivi dei provvedimenti, ipotizzando “picchi” poi rivelatisi sempre troppo ottimistici? Le risposte a mio avviso sono due, ed entrambe implicano un giudizio totalmente negativo sull’approccio politico, e direi culturale, seguito dal governo nel contrasto all’epidemia.
  1. 1) Lo slogan “io resto a casa”, adottato come perno principale della strategia, è stato concettualmente sbagliato e psicologicamente fuorviante. Ha spinto gran parte della popolazione italiana a pensare che la famiglia fosse un porto sicuro dal virus, che il rischio stesse “fuori”, e ha forzato decine di milioni di italiani a sigillarsi in casa con i nuclei familiari, spesso addirittura compattandoli e riunendoli in nuclei più ampi (come nel caso degli emigranti meridionali al Nord precipitosamente rientrati nei luoghi d’origine, ma non solo).
    Questa dinamica non solo non ha efficacemente limitato la circolazione del contagio, ma al contrario in molti casi la ha favorita, per mezzo della inevitabile accresciuta promiscuità domestica che ne è seguita. E, in particolare, ha esposto maggiormente al contagio i soggetti più a rischio: anziani e sofferenti di patologie più o meno croniche e invalidanti. Il primo fattore di perpetuazione dell’epidemia e di aumento della mortalità è stato, dunque, evidentemente intrafamiliare. Esso si è andato a cumulare con un altro elemento di moltiplicazione dell’infezione in ambienti chiusi e popolati: la generale inadeguatezza delle dotazioni di sicurezza e protezione in ospedali, case di cura, residenze per anziani, case-famiglia, che ha seminato strage tra medici, personale, degenti, ospiti, familiari.
    Senza contare il fatto che sempre più dubbi emergono sul numero effettivo, non censito, dei contagiati, e molti scienziati stimano che esso sia molte volte maggiore di quello ufficialmente dichiarato. Sicché la lenta discesa dei contagi, dei ricoverati e delle vittime registrata nelle ultime settimane potrebbe essere causata non solo dalle misure di distanziamento sociale, ma in una certa misura anche dall’emergere dei primi segni della tanto vituperata “immunità di gregge”, che attenuerebbe la forza della trasmissione del virus.
    Piuttosto che “restate a casa” il messaggio fondamentale da veicolare da parte delle istituzioni pubbliche per promuovere un efficace “distanziamento sociale” avrebbe dovuto essere, insomma, “state lontani gli uni dagli altri”: perseguire il massimo isolamento individuale possibile nelle condizioni materiali date, se del caso anche dentro i nuclei familiari, e in particolare isolando e proteggendo tutti i soggetti più rischio.
    Sorprende che nessuno tra gli scienziati, medici e ricercatori ingaggiati a vario titolo come consulenti del governo abbia insistito su questo punto, e tutti invece abbiano sposato la rudimentale versione “casalinga” e “familista” del “lockdown”. E appare grottesca, in questa luce, la corsa a identificare i “colpevoli” del persistente indice di contagi, in una logica da “Colonna infame” manzoniana, in tutti quelli che “stanno troppo per strada”: reprimendo passeggiate e corse solitarie, tacciando di irresponsabilità chi esce troppo a far la spesa o a portare fuori il cane, e negando persino le uscite con bambini. Alla base di queste irrazionali storture risiedono però, appunto, non solo e non tanto incapacità tecniche quanto soprattutto elementi culturali: il rifiuto di un approccio pragmatico e concreto al problema, fondato sull’analisi di costi e benefici; l’illusione superstiziosa, “decrescitista” che l’unico modo per combattere un’epidemia sia immobilizzare, mettere “in letargo” una società; e infine un pregiudizio di fondo contro la libertà e la responsabilità individuale, che porta a trasformare raccomandazioni in divieti e controlli polizieschi.
  2. Un periodo di “lockdown” con limitazione di spostamenti e attività economiche in un paese occidentale democratico a economia di mercato non può che essere circoscritto chiaramente nel tempo ed eventualmente nello spazio (vedi i provvedimenti differenziati adottati nei vari stati Usa), così come limitato alle restrizioni assolutamente utili e indispensabili. Ma non basta. Esso deve anche essere pensato non come l’unica misura, ma una tra le misure da adottare allo scopo. Il tempo che esso fornisce per “appiattire la curva”, proteggere le strutture sanitarie dal collasso, salvare quante più vite possibile, deve essere considerato anche un tempo prezioso per studiare e analizzare meglio il fenomeno, individuarne le dinamiche propulsive, e quindi approntare strategie più mirate ed efficaci a sconfiggerlo, e in prospettiva impedirne una ripresa.
    Ogni giorno di “lockdown” comporta un costo enorme per la società e l’economia, e una compressione delle libertà, che occorre siano proporzionati e giustificati. Nel nostro paese questo aspetto appare, fino ad ora, quasi del tutto assente. Quali sono stati i percorsi del virus, le sue direttrici di marcia, i flussi della sua espansione? Qual è la sua effettiva estensione e distribuzione sul territorio? Come intervenire per anticipare le sue mosse, frapporgli sbarramenti in luoghi strategici, proteggere le categorie più esposte al suo attacco? Come approntare gli strumenti più idonei per “sanificare” la società, nell’ottica di farla ritornare al più presto per quanto possibile ad una condizione, per quanto possibile, di normalità, sia pur protetta?
    A questi aspetti il governo, il comitato tecnico-scientifico, l’Istituto superiore di sanità, la Protezione civile sembrano per lo più disinteressati, concentrati invece unicamente sull’attesa, più volte smentita o dilazionata, che le misure restrittive – sempre celebrate come le uniche possibili ed efficaci, a dispetto dei dati – risolvano prima o poi il problema. Dopo le tragiche sottovalutazioni del rischio all’inizio dell’epidemia, che hanno impedito una tempestiva circoscrizione dei focolai, ancora oggi, dopo una svolta di 180 gradi da “è poco più di un’influenza” al catastrofismo da bunker antiatomico, si ripropone in altra forma quella stessa passività, quella completa mancanza di strategia e di prospettiva. Soltanto negli ultimi giorni è stato finalmente annunciato l’avvio di un’indagine a campione di analisi sierologica sulla popolazione, per studiare le dimensioni effettive del contagio e il grado di immunizzazione raggiunto: troppo poco, troppo tardi. Si tratta di un’iniziativa che probabilmente ci fornirà indicazioni utili, ma quando danni irreparabili al tessuto sociale ed economico del paese saranno già compiuti.
    Nel frattempo, le pressanti richieste da parte delle associazioni imprenditoriali affinché si consenta di riaprire tutte quelle aziende che possono operare nel rispetto delle norme di distanziamento e protezione, per non aggravare ulteriormente il collasso dei settori produttivi maturato in questo mese e pregiudicarne il futuro, cadono nel vuoto, e vengono liquidate con sufficienza dal governo rimandandole a non meglio specificati tempi migliori. E il blocco indiscriminato dell’economia, come quello della circolazione delle persone, è stato prorogato fino al 3 maggio, con nessuna certezza che non vi saranno ulteriori proroghe. Il tutto mentre in nessuno tra gli altri paesi industrializzati occidentali duramente colpiti dalla pandemia le misure restrittive sono state così estese e paralizzanti. E mentre ovunque, persino in un paese colpito addirittura più dell’Italia, come la Spagna, si sta mettendo a punto un progetto articolato di ripresa delle attività economiche e della vita sociale.
E qui veniamo al punto propriamente politico di questa deriva italiana – primitiva, rudimentale, regressiva – della risposta alla pandemia. Un punto che è andato sempre più emergendo con chiarezza nel corso delle settimane.
La linea del “tutti a casa” ha trovato la sua massima rappresentazione nella gestione dell’emergenza adottata dal Presidente del Consiglio Conte. Una gestione ispirata ad un modello di governo apertamente paternalistico, animata dall’intento di avvalorare una leadership personale e un rapporto diretto con i governati, e concretizzatasi in continue comunicazioni mediatiche, a reti unificate e/o sui social media.
La semplicistica soluzione di “chiudere” completamente il paese, la concentrazione senza precedenti di forze per assicurare il rispetto dei divieti di movimento, e l’insistenza con cui la comunicazione governativa identifica l’efficacia nel contrasto al virus con la permanenza dell’intera popolazione nei propri domicili, si rivelano sempre più, in questa luce, non tanto una strategia di salute pubblica quanto innanzitutto uno strumento di controllo sociale.
Il loro scopo appare in tal senso duplice. Da un lato, quello di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle colossali inefficienze dell’apparato statale che hanno fatto dell’Italia il “lazzaretto del mondo” per indirizzare la rabbia e la frustrazione di essa verso facili, per quanto immaginari, capri espiatori: cioè, appunto, gli “untori” che si ostinano a voler esercitare la propria libertà di movimento. Dall’altro, quello di venire prontamente incontro ad una mentalità diffusa caratterizzata dal rifiuto di un concetto moderno di responsabilità individuale e autodisciplina. Una mentalità che fino a poche settimane fa portava masse ingenti di cittadini a ignorare sconsideratamente ogni raccomandazione di sicurezza, ammassandosi a centinaia e migliaia in locali ed eventi collettivi nonostante l’epidemia in pieno corso; e che ora, specularmente, spinge quegli stessi cittadini ad affidarsi ciecamente, ed altrettanto sconsideratamente, ad un potere che svolga la funzione di “secondino”, rassicurati dalla loro stessa condizione di segregazione.
La parola d’ordine “io resto a casa”, insomma, si configura ormai come emblema di una concezione della politica illiberale, allergica alle forze produttive e allo sviluppo economico, iperstatalista e assistenzialista, tendenzialmente incline ad un para-autoritarismo in stile sudamericano, un “madurismo” all’italiana di cui Conte e il residuo gruppo dirigente dei 5 Stelle si propongono come l’avanguardia. E a cui, per quell’inerzia culturale nichilista che lo contraddistingue, si accoda pigramente anche il Pd.
Eugenio Capozzi - Fonte

1 commento:

Maria Guarini ha detto...

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-mes_e_le_finestre_di_overton_da_chiudere_immediatamente/32703_34265/