Raffaella Carrà bandiera dei gay, della liberazione sessuale, del femminismo e perfino dell’antifascismo; anzi patrona della Spagna antifranchista e gaudente, che si libera danzando dell’arcigno potere del Generalissimo e della sua Cattolicissima nazione. A sentire i media, Raffaella è stata soprattutto questo, tutto il suo ruolo nella ricreazione popolare aveva un filo sotterraneo “progressivo” se non “progressista”. Da coscia d’oro a coscienza dell’emancipazione tramite spettacolo...
Eppure la sua “figliastra” Barbara Boncompagni racconta che la Carrà si sorprendeva del fatto che il fronte gay e trans l’avesse eletta a sua madonna e reginetta. In effetti, lei era semmai il simbolo della seduzione femminile, della femminilità scosciata e intraprendente, che giocava con i maschi e si lasciava corteggiare, ammiccava e bamboleggiava. In Tv rappresentava la tv del disimpegno e delle pailettes, la pura evasione, il ballo sfrenato, la canzoncina allegra e fatua che ti entra nella testa, la risata fragorosa, insomma il circo dello spettacolo che non vuole pensieri; al più l’irruzione degli affetti privati nei programmi fatti di abbracci, sorprese e ritorni a casa. Tutto meno che un messaggio politico, ideologico, di appartenenza, divisione e impegno di lotta. E poi tanta vitalità e simpatia, gusto della vita e piacere di corpi, balli e lasagne.
In altri tempi, quando la sinistra era austera, apertamente ideologica e libresca, tutta politica, militanza e lotta per il proletariato contro le ingiustizie del potere, Raffaella Carrà e tutti gli altri protagonisti dello spettacolo, furono bollati come oppio dei popoli, sedativo delle menti, analgesico dei drammi sociali, trastullo per inebetire i più giovani e stordire i più vecchi; insomma intrattenitori organici all’establishment democristiano, capitalista e borghese. A volerla tradurre in termini politici, in quel tempo la tv di Mike Bongiorno e di Pippo Baudo, di Corrado e della Carrà, era la tv del disimpegno che portava acqua al mulino della Dc; era il frutto di quella narcotizzazione popolare, già vigente in epoca Bernabei che offriva evasione, divertimento più qualche sceneggiato “edificante”, magari di buoni sentimenti cristiani e familisti, per rifarsi la coscienza e la cultura.
Ma il messaggio prevalente che si leggeva nella tv generalista alla Carrà era quello di distrarre, far sognare coi balletti e le lotterie, indurre il pubblico ad accettare la realtà così com’è, senza aspirazioni a cambiarla o a lottare, se non con un colpo di fortuna col biglietto vincente; magari suscitando pure una moderata libidine domestica compatibile con la famiglia, nel vedere quei corpi seminudi e flessuosi, quelle espressioni seducenti e quei pizzi inguinali da tinello arrapato; senza mai disturbare il conducente, cioè il potere.
Persino i personaggi più vivaci e destabilizzatori, come Roberto Benigni o magari lo stesso Beppe Grillo, con la Carrà giocavano sul suo terreno, entravano nel mondo scherzoso e allusivo di Maga Maghella e della Fatina Scosciata, assumevano l’aspetto di marpioni e molestatori (ah, quella scena di Benigni che butta a terra la Carrà, che processo terribile avrebbe avuto oggi con la Santa Inquisizione del Me Too...).
Ora invece (lo vedemmo già con Gigi Proietti, ma lo vediamo a ogni occasione, morte o ricorrenza), siamo invece all’operazione inversa: occupare tutti gli spazi dell’immaginario popolare e anziché proporre temi, figure e riferimenti consoni alla propria visione politica, tentare il procedimento opposto: attribuire ai personaggi più noti, più amati, dello spettacolo e della ricreazione di massa, connotati compatibili o vene sotterranee di impegno e adesione ai temi politici più “corretti”. È la colonizzazione dell’immaginario collettivo, si sarebbe detto in altri tempi, il monopolio della narrazione pubblica dissimulata nel gioco ricreativo, quando si è più vulnerabili perché più disarmati.
L’ideologia prende la forma del tempo, si fa duttile, subdola, policromatica, come la bandiera rossa si fa arcobaleno. Ma non solo: un tempo la tv di evasione era denunciata dai suddetti cultori dell’engagement perché serviva a tener buono il popolo e a non dare fastidi al potere. Oggi, quella sinistra da passeggio si sente essa stessa potere, dominazione, e dunque anche l’evasione serve per addormentare la ribellione, drenare il populismo, frenare la carica antisistema e per rafforzare l’establishment e il conformismo di massa. Tra il togliattismo ancora stalinista di un tempo e il veltronismo televisivo, c’è stato di mezzo Umberto Eco, e il passaggio dall’egemonia secondo Gramsci alla fenomenologia di Mike Bongiorno. È proprio Veltroni che sull’house organ dei Dem nell’Establishment, il Corriere della sera, s’incarica di leggere gli eventi e i protagonisti del passato e del presente televisivo-cinematografico in quella chiave “democratica e progressista”, più tanta “pappa del cuore”.
D’altra parte se la leadership ideologica di quel mondo è ora dei Ferragnez, è giusto che sia il mondo dello spettacolo la loro cittadella-fortezza in cui si fabbrica il Racconto e il Consenso. È così che Raffaella, a sua insaputa, si trova a cantare come sigla di chiusura “la canzone che mi passa per la testa… e che fa Zan Zan Zan...”
Eppure la sua “figliastra” Barbara Boncompagni racconta che la Carrà si sorprendeva del fatto che il fronte gay e trans l’avesse eletta a sua madonna e reginetta. In effetti, lei era semmai il simbolo della seduzione femminile, della femminilità scosciata e intraprendente, che giocava con i maschi e si lasciava corteggiare, ammiccava e bamboleggiava. In Tv rappresentava la tv del disimpegno e delle pailettes, la pura evasione, il ballo sfrenato, la canzoncina allegra e fatua che ti entra nella testa, la risata fragorosa, insomma il circo dello spettacolo che non vuole pensieri; al più l’irruzione degli affetti privati nei programmi fatti di abbracci, sorprese e ritorni a casa. Tutto meno che un messaggio politico, ideologico, di appartenenza, divisione e impegno di lotta. E poi tanta vitalità e simpatia, gusto della vita e piacere di corpi, balli e lasagne.
In altri tempi, quando la sinistra era austera, apertamente ideologica e libresca, tutta politica, militanza e lotta per il proletariato contro le ingiustizie del potere, Raffaella Carrà e tutti gli altri protagonisti dello spettacolo, furono bollati come oppio dei popoli, sedativo delle menti, analgesico dei drammi sociali, trastullo per inebetire i più giovani e stordire i più vecchi; insomma intrattenitori organici all’establishment democristiano, capitalista e borghese. A volerla tradurre in termini politici, in quel tempo la tv di Mike Bongiorno e di Pippo Baudo, di Corrado e della Carrà, era la tv del disimpegno che portava acqua al mulino della Dc; era il frutto di quella narcotizzazione popolare, già vigente in epoca Bernabei che offriva evasione, divertimento più qualche sceneggiato “edificante”, magari di buoni sentimenti cristiani e familisti, per rifarsi la coscienza e la cultura.
Ma il messaggio prevalente che si leggeva nella tv generalista alla Carrà era quello di distrarre, far sognare coi balletti e le lotterie, indurre il pubblico ad accettare la realtà così com’è, senza aspirazioni a cambiarla o a lottare, se non con un colpo di fortuna col biglietto vincente; magari suscitando pure una moderata libidine domestica compatibile con la famiglia, nel vedere quei corpi seminudi e flessuosi, quelle espressioni seducenti e quei pizzi inguinali da tinello arrapato; senza mai disturbare il conducente, cioè il potere.
Persino i personaggi più vivaci e destabilizzatori, come Roberto Benigni o magari lo stesso Beppe Grillo, con la Carrà giocavano sul suo terreno, entravano nel mondo scherzoso e allusivo di Maga Maghella e della Fatina Scosciata, assumevano l’aspetto di marpioni e molestatori (ah, quella scena di Benigni che butta a terra la Carrà, che processo terribile avrebbe avuto oggi con la Santa Inquisizione del Me Too...).
Ora invece (lo vedemmo già con Gigi Proietti, ma lo vediamo a ogni occasione, morte o ricorrenza), siamo invece all’operazione inversa: occupare tutti gli spazi dell’immaginario popolare e anziché proporre temi, figure e riferimenti consoni alla propria visione politica, tentare il procedimento opposto: attribuire ai personaggi più noti, più amati, dello spettacolo e della ricreazione di massa, connotati compatibili o vene sotterranee di impegno e adesione ai temi politici più “corretti”. È la colonizzazione dell’immaginario collettivo, si sarebbe detto in altri tempi, il monopolio della narrazione pubblica dissimulata nel gioco ricreativo, quando si è più vulnerabili perché più disarmati.
L’ideologia prende la forma del tempo, si fa duttile, subdola, policromatica, come la bandiera rossa si fa arcobaleno. Ma non solo: un tempo la tv di evasione era denunciata dai suddetti cultori dell’engagement perché serviva a tener buono il popolo e a non dare fastidi al potere. Oggi, quella sinistra da passeggio si sente essa stessa potere, dominazione, e dunque anche l’evasione serve per addormentare la ribellione, drenare il populismo, frenare la carica antisistema e per rafforzare l’establishment e il conformismo di massa. Tra il togliattismo ancora stalinista di un tempo e il veltronismo televisivo, c’è stato di mezzo Umberto Eco, e il passaggio dall’egemonia secondo Gramsci alla fenomenologia di Mike Bongiorno. È proprio Veltroni che sull’house organ dei Dem nell’Establishment, il Corriere della sera, s’incarica di leggere gli eventi e i protagonisti del passato e del presente televisivo-cinematografico in quella chiave “democratica e progressista”, più tanta “pappa del cuore”.
D’altra parte se la leadership ideologica di quel mondo è ora dei Ferragnez, è giusto che sia il mondo dello spettacolo la loro cittadella-fortezza in cui si fabbrica il Racconto e il Consenso. È così che Raffaella, a sua insaputa, si trova a cantare come sigla di chiusura “la canzone che mi passa per la testa… e che fa Zan Zan Zan...”
Marcello Veneziani, La Verità (8 luglio 2021)
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