Ci voleva la copertina dell’Economist sul pericolo della “sinistra illiberale” per svegliare la sinistra italiana dal suo sonno dogmatico e presuntuoso. Per anni abbiamo sottolineato la svolta liberal della sinistra venuta dal comunismo e dal socialismo, che coincideva con la deriva neoborghese e neocapitalistica. Ma da qualche tempo qualcosa sta avvenendo ai confini di questa sinistra liberal: per dirla nello stesso linguaggio anglo-americano, si sta accentuando l’aspetto radical e stanno riprendendo corpo obblighi e divieti, censure e rimozioni, gravi restrizioni degli spazi di libertà. La sinistra appare sempre più una casa d’intolleranza, tra totem e tabù, interdetti e intoccabili.
Da un verso la sinistra marcia al fianco della società neoborghese e neocapitalistica, elogia la globalizzazione, si colloca nella Ztl e nell’establishment, è guardia rossa del potere economico, burocratico, giudiziario, mediatico e intellettuale. E ingaggia in questo ambito le campagne per una società permissiva, sempre più individualista e globale. Ma dall’altra parte risale l’anima radical e alle battaglie di liberismo e liberazione si affiancano battaglie correttive e punitive per far rientrare la società nei canoni rigidi del politically correct, della cancel culture, del pensiero uniforme. Lo spettacolo di questa schizofrenia e di questa conversione a U della sinistra, liberal nella sfera privata e radical nella sfera pubblica, permissiva e intollerante, è sotto gli occhi di tutti e non riguarda solo la sinistra italiana e la leadership di Letta.
È un processo diffuso che oggi suscita al suo interno alcune crisi di rigetto. Da una parte il dissenso di alcuni intellettuali e filosofi “di sinistra” nei confronti del regime di restrizioni sanitarie imposto per la pandemia, con i casi più vistosi di Agamben, Cacciari, Barbero; e dall’altra il disagio di intellettuali e osservatori di sinistra nei confronti di quel filone demenziale, intollerante e puritano della cancel culture, dilagato dagli Stati Uniti in Europa – da Noam Chomsky a Federico Rampini – su quell’onda giacobina di censure e distruzioni, omertà e isterismi gender, che si è abbattuta sulla storia, la tradizione e la cultura dell’occidente e nei rapporti sociali e sessuali. Ci sono due modi per stuprare la cultura e la storia: attualizzarla con la forza o cancellarla, negarla. Entrambi i modi oggi sono oggi frequenti, pervasivi, se non dominanti.
Al tema della libertà è stato dedicato il Festival di Filosofia a Modena ed è inutile ed anche noioso notare che la passerella è stata riservata alla stessa compagnia di giro, senza voci dissonanti se non sono dentro quell’alveo di pensiero; e in più con l’autocompiacimento che il Festival ha onorato le quote rosa. Due criteri che già rendono grottesco e incoerente il tema a cui era dedicato: libertà ma solo fino a un certo punto, libertà sotto vigilanza, senza dissenso e con l’ossequio alla retorica gender.
Ma qual è il rapporto tra la cultura progressista e la libertà? Gli studiosi della libertà degli anni passati, da Isaiah Berlin a Ralf Dahrendorf a Norberto Bobbio distinguevano tra libertà da e libertà di, ovvero tra libertà negativa, come non impedimento, che è propria del liberalismo, e libertà positiva che è invece correlata all’emancipazione, alla giustizia sociale e all’uguaglianza. Grandeggia solitaria la posizione discesa da Nietzsche che si poneva un tema ulteriore: libertà per cosa? Ovvero la libertà, la sua qualità, la sua dignità, si misura dall’uso che se ne fa e dal modo in cui si vive. Il sottinteso è che la libertà non sia la stessa per tutti, ma si debbano riconoscere gradi diversi, differenze e non possa concludersi nell’uguaglianza e nell’omologazione.
Storicamente, l’idea di libertà a sinistra, nel mondo progressista, antifascista e marxista, ha coinciso con l’idea di liberazione. Liberazione di popoli e individui dal giogo della tradizione, dalle gerarchie sociali e di classe, dai regimi autoritari, repressivi o anche borghesi, o come un tempo si diceva “di democrazia formale”. Nella sinistra classica, la libertà individuale era subordinata alla liberazione delle masse, il collettivo prevaleva sul personale, la classe sul singolo.
E oggi? Oggi vige quella schizofrenia che notavamo prima: ovvero la liberazione individuale rispetto alla natura, al sesso, alla tradizione, alla sfera privata, fa il paio con la coazione sociale sui giudizi storici, politici, ideologici, sanitari. Qui vige la camicia di Nesso, il letto di Procuste, insomma un regime di restrizione e d’intolleranza.
Le politiche economiche a sinistra riflettono l’oscillazione tra quei due poli: da un verso c’è infatti la conversione della sinistra al libero mercato, al privato, al capitale ma dall’altra permane l’idea punitiva di colpire, tassare le fonti di ricchezza, le attività imprenditoriali, la libera iniziativa, i patrimoni, le case. Un capitalismo ibrido e contraddittorio, con pericolose intermittenze. Non si conoscono allo stato attuale esperimenti politici significativi ben riusciti sotto questo punto di vista. E non si conoscono regimi progressisti di coazione & liberazione che abbiano vero e largo consenso popolare.
A tutto questo si aggiunge l’uso intollerante dell’antifascismo per censurare ogni avversario, tenerlo sotto schiaffo, in cui si manifesta il paradosso della deriva illibertaria nel nome della stessa libertà: un abuso che riporta artificialmente in vita esperienze storicamente defunte da svariati decenni, allo scopo di squalificare gli avversari; serve a colpire la libertà d’opinione e la diversità di giudizio storico e a sottomettere la verità e la realtà al moralismo e al bigottismo ideologico. Insomma, la sinistra oggi dimostra che si può essere permissivi e intolleranti, marciare per la liberazione e poi essere nemici della libertà. È il bipensiero orwelliano o la doppia verità, anticamera dei nuovi totalitarismi.
Marcello Veneziani, La Verità (18 settembre 2021)
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