Quando criticammo l'uso delle mascherine e le aggressioni verbali contro chi si interrogava sull'efficacia e la funzione del dispositivo sanitario in questione, la nostra preoccupazione non era che qualcuno andasse in giro con un pezza lurida in volto. Il nostro intento non era deridere chi, con 40 gradi all'ombra, si ostinasse a non respirare per proteggersi da un misterioso patogeno orientale. Ognuno, ci mancherebbe, è libero di conciarsi come vuole e di girare con uno scafandro in testa, se lo vuole. Non è questo il punto. Il vulnus era, ed è, l'adesione. L'appartenenza. Il segno, il simbolo del nuovo credo. Quando facemmo notare che le bizzarre norme comportamentali imposte al popolo non avessero nulla a che fare con la salute pubblica, ma fossero finalizzate in realtà ad una rieducazione dell'individuo, non lo facemmo per mero esercizio di critica. Per essere ribelli a tutti i costi. Eravamo già consci, purtroppo, della deriva che di lì a breve avrebbero preso gli eventi. Dell'abisso, profondo, in cui stavamo, nostro malgrado, precipitando. Ed ora che il dissenso è psichiatrizzato, che lo stato di diritto volge al definitivo tramonto, che un trattamento sanitario sperimentale è reso de facto obbligatorio pena l'esclusione dalla vita lavorativa e sociale, che un lasciapassare che attesti che un uomo sano è sano è imprescindibile per portare il pane a casa, il cerchio si è pericolosamente chiuso.
Tutto era propedeutico per giungere a questo momento. Dai quindici giorni di Conte alla terza dose il passo è stato breve.
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