No ad un super-Stato Ue che nessuno ha scelto e non è nei Trattati: il discorso thatcheriano del premier polacco
Mateusz Morawiecki, premier polacco, ha tenuto un discorso al Parlamento europeo, in cui ha ricordato il vero ruolo dell’Unione europea. Quello che l’Ue dovrebbe essere, stando ai suoi stessi Trattati e quel che, invece, non dovrebbe mai diventare. Puntualmente è stato trattato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, come un rappresentante di uno Stato canaglia, passibile di sanzioni internazionali. Il che ci dà una misura di come l’attuale Ue si sia allontanata dal suo progetto originario.
Innanzitutto il premier conservatore di Varsavia, ha ricordato agli europei perché il nostro è un continente speciale, diverso da tutti gli altri:
Dobbiamo rispondere alla domanda su dove l’Europa abbia acquisito il suo vantaggio nel corso dei secoli. Su cosa abbia reso così forte la civiltà europea.
La risposta della storia suona così: siamo diventati potenti perché siamo il continente più pluralista sul pianeta. Lo storico Niall Ferguson ha scritto che: “Gli imperi monolitici dell’Oriente hanno perso la corsa all’innovazione, mentre i numerosi regni e le città Stato di un’Eurasia occidentale, divisa da fiumi e catene montuose, sono sempre stati in competizione, e in comunicazione, fra loro”. Dunque, l’Europa ha vinto mantenendo l’equilibrio fra una competizione creativa e la comunicazione. Fra competizione e cooperazione. Oggi abbiamo ancora bisogno di entrambe.
Il discorso di Morawiecki giunge in risposta ad un coro di critiche (e alla richiesta di sanzioni) alla sentenza della Corte Suprema polacca in cui si ribadisce il principio che la Costituzione polacca sia la legge suprema dello Stato. Le normative europee possono acquisire priorità solo nei campi che la nazione polacca ha delegato all’Ue, ma non sulla Costituzione in sé. Varsavia è chiara, su questo punto: “Il pluralismo costituzionale significa che deve restare uno spazio per il dialogo fra noi, fra i nostri Paesi e i nostri sistemi legali. Questo dialogo avviene anche attraverso le sentenze dei tribunali”.
La questione non è solo teorica, ma giunge al culmine di un braccio di ferro sulla riforma della magistratura varata in Polonia. La questione tecnica e le ragioni di Varsavia e Bruxelles sono già state ampiamente analizzate da Musso su Atlantico Quotidiano. Prima di tutto la sentenza della Corte polacca ribadisce l’adesione della Polonia ai Trattati e il loro rispetto (quindi non c’è alcuna “Polexit” in discussione), semplicemente non viene accettata come norma l’interpretazione che dei Trattati dà la Corte di Giustizia. “Nei Trattati Ue abbiamo delegato molte competenze, ma non tutte, all’Unione europea. Non ci sono dubbi che il diritto Ue abbia supremazia sul diritto nazionale in quelle aree (di competenza, ndr) che sono state delegate dagli Stati membri all’Ue”. Ma “se un’istituzione Ue va oltre i suoi poteri, uno Stato membro deve avere gli strumenti per reagire”.
Però il discorso del premier polacco va molto oltre la difesa d’ufficio delle decisioni della magistratura polacca. Accettiamo il principio che la Corte di Lussemburgo, a nome di tutta l’Europa, spicchi una sentenza che è in grado di ribaltare una sentenza di un tribunale polacco? Se è così, noi abbiamo un super-Stato, che però nessuno ha scelto. “L’adozione di quest’ultima interpretazione – dice Morawiecki – potrebbe dare adito a un ribaltamento arbitrario di milioni di sentenze e alla rimozione dal loro incarico di migliaia di giudici”. Nel nome del rispetto dello stato di diritto, si porrebbe fine al governo della legge in Polonia.
Oggi possiamo scegliere fra due atteggiamenti: o accettiamo un percorso, del tutto extra-legale e al di fuori dei Trattati, che limiti la sovranità dei Paesi europei, compresa la Polonia, a favore di un’inquietante espansione di competenze di istituzioni quali la Corte di Giustizia, per questa “rivoluzione silenziosa” che sta compiendosi non sulla base di decisioni democratiche, ma a colpi di sentenze della Corte. Oppure possiamo dire: “no, miei cari”, se volete trasformare l’Europa in un super-Stato senza nazioni, prima dovete ottenere il consenso di tutti i Paesi europei e delle loro società.
Questo atteggiamento, Morawiecki lo riassume così: “Sì all’universalismo europeo e no al centralismo europeo”.
Se questo discorso vi ricorda qualcosa, non sbagliate: riecheggia, infatti, gli argomenti del discorso di Bruges, del 1988, di Margaret Thatcher. Anche la Lady di ferro era convinta che la forza dell’Ue fosse nel suo pluralismo, nella competizione creativa di nazioni diverse, per lingua e tradizione. Morawiecki, come la Thatcher alla fine del Novecento, ritiene che le sfide comuni europee siano ancora forti e richiedano unità. Ne indica due, soprattutto: la pressione migratoria da Sud e la minaccia della Russia ad Est. È purtroppo su questi punti che, invece, l’Ue è disunita.
Dove l’Ue cerca il centralismo, lì crea la divisione: “Noi abbiamo subito le paternali sulla democrazia, lo stato di diritto, su come dovremmo plasmare il nostro Paese, sul fatto che stiamo facendo delle scelte sbagliate, che siamo troppo immaturi, che la nostra democrazia sia ancora giovane: questo è il corso fatale della narrazione proposta da alcuni”, lamenta il premier polacco rivolto soprattutto ai suoi omologhi occidentali e di sinistra. Vantando un’antichissima democrazia (la prima costituzione scritta in Europa) e di aver affrontato da sola i nemici totalitari, sia il comunismo che il nazismo, la Polonia può dare un contributo, anche nella costruzione di un’identità europea libera dalla tirannide. Invece viene trattata da Paese in via di sviluppo, con gravi deficit democratici. Il fatto di mettere in discussione l’erogazione degli aiuti previsti dal Next Generation EU, per la ricostruzione post-Covid, cos’è se non un ricatto? “Penalizzazioni e repressione inflitte dai Paesi più forti e ricchi ai danni di quelli che stanno ancora lottando per uscire dalla condizione di essere stati dalla parte sbagliata della cortina di ferro, non è il percorso giusto”. (Stefano Magni - Fonte)
1 commento:
Maurizio Belpietro
Come spiegavo ieri, citando un editoriale del prestigioso Washington Post, non ho intenzione di fare la fine del sorcio. Secondo il quotidiano americano della sinistra liberal, l'Italia è diventata un laboratorio politico, che si sta spingendo verso terre inesplorate dalle democrazie occidentali.
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