Secondo l’Istat, nel 2015 quasi il 46 per cento della popolazione si esprimeva in italiano con i famigliari, oltre il 32 sia in italiano sia in dialetto, circa il 14 soltanto in dialetto (percentuale che però raddoppiava negli over 75). Nonostante l’uso del dialetto registri un declino nell’ultimo ventennio, questi dati confermano quel che già Dante intuì nel “De vulgari eloquentia“: non c’è paese di lingua romanza (derivata cioè dal latino) in cui, accanto al dialetto scelto come lingua nazionale, coesistono così numerosi idiomi regionali o locali.
Infatti, ha scritto il (da me) compianto Tullio De Mauro, la presenza dei dialetti è un tratto distintivo della nostra vicenda culturale (“Storia linguistica d’Italia dall’Unità a oggi”, Laterza, 2017). Ebbene, l’asprezza delle contrapposizioni tra chi vede i dialetti come un’erbaccia da gettare alle ortiche e chi li vagheggia come una incontaminata fonte di creatività, non si può comprendere senza risalire alle ragioni storico-linguistiche della loro esistenza. Provo a citarne alcune.
Cominciamo col ricordare che i dialetti non sono varianti dell’italiano. Se si vuole ricorrere all’immagine dell’albero genealogico, i dialetti italiani e l’italiano sono altrettanti rami del comune tronco latino, pari in ciò al castigliano o portoghese o aragonese nella penisola iberica; oppure all’occitano o al francese dei nostri cugini d’oltralpe. Chi parla un dialetto, quindi, non sta storpiando l’italiano, ma sta parlando un diverso idioma neolatino. Nella loro diversità, gli idiomi romanzi si raccolgono in due grandi gruppi: occidentali e orientali. Il loro confine non segue i confini tra gli Stati. Esso taglia in due l’Italia: è la cosiddetta linea La Spezia-Rimini.
Questa linea è un confine storico ed etnogeografico antichissimo: a metà del primo millennio a.C separò l’Europa e l’Italia gallica dall’Europa e dall’Italia etrusca, osco-umbra, illirica, greca; in seguito separò l’Italia egemonizzata dalla repubblica romana, a sud del Rubicone, dall’Italia padana, gallica e venetica. Più tardi, ai tempi di Diocleziano e poi della nascente Chiesa, separò l’Italia centrata su Mediolanum e sulle diocesi transalpine dall’Italia centrata su Roma e aperta al mondo mediterraneo.
In secondo luogo, vale la pena di rammentare i motivi dell’assunzione del fiorentino a lingua nazionale. De Mauro ne indica quattro: 1) perché, rispetto ad altri dialetti come il napoletano e il lombardo, era di gran lunga più vicino alle forme latine classiche, e quindi pareva più familiare al ceto colto tardomedievale e rinascimentale abituato a leggere e scrivere in latino; 2) per il grande prestigio letterario conferitogli da Dante, Boccaccio e Petrarca; 3) per la capillare opera di promozione svolta dalla potente rete finanziaria toscana; 4) per la volontà delle signorie cittadine e degli ambienti intellettuali più dinamici del Rinascimento di dare all’Italia, politicamente divisa ma vissuta come realtà a suo modo unitaria, una lingua nazionale paragonabile a quella degli Stati europei dell’epoca.
Tuttavia, nonostante queste significative motivazioni di ordine culturale e politico, l’italiano non ebbe quelle spinte unificanti di origine religiosa che, fin dal Cinquecento, nei paesi oggi di lingua tedesca portarono le grandi masse alla consuetudine della lettura e della scrittura. Sicché la lingua della cancelleria di Sassonia, usata da Lutero per tradurre la Bibbia, divenne davvero — giusto il suo nome (“deutsch”, in latino medievale “teotiscus”, voleva dire “popolare”) — lingua di tutto intero un popolo, pur politicamente diviso.
Al contrario, nelle condizioni in cui il nostro paese visse prima e dopo il 1861, l’italiano si scontrò con grandi forze ostili alla sua diffusione territoriale. Conobbe la molteplicità di città-capitali, ciascuna (con l’eccezione della Roma papale) con oligarchie municipali. Soffrì la mancanza di una borghesia moderna e di strutture amministrative unitarie, come patì la frammentazione della realtà sociale ed economica. In condizioni siffatte, esso visse, fuori di Firenze, Siena e Roma (linguisticamente toscanizzatasi dal sedicesimo secolo, tranne che negli infimi — e reietti — strati plebei), come mero appannaggio dei letterati e degli estensori di atti ufficiali. Nella vita quotidiana, anche in occasioni pubbliche, tutte le classi sociali in tutte le regioni continuavano a parlare i dialetti nativi.
È in questo contesto storico-linguistico, solcato da tante fratture e differenze, la radice di un altro fenomeno singolare. In Europa, l’Italia è il paese di gran lunga più ricco di idiomi alloglotti nativi, ossia non importati da recenti ondate di immigrati: occitano, francoprovenzale, francese, tedesco del Rosa, di Belluno e Bolzano, del Veronese e del Vicentino, sloveno, ladino di Bolzano e Trento e friulano, serbocroato, albanese, neogreco di Calabria e Puglia, sardo logudorese e campidanese, catalano, convivono dal Medioevo con i dialetti italiani settentrionali e centro-meridionali. Una ricchezza colpevolmente misconosciuta, lamenta non a torto De Mauro.
Soltanto agli inizi del Novecento cominciò ad acquistare qualche consistenza l’abitudine di parlare italiano tra i ceti borghesi delle maggiori città. E soltanto negli anni Cinquanta e Sessanta il boom economico e demografico, con il conseguente inurbamento di vaste masse agricole, impose l’esigenza di un idioma comune. La scuola dell’obbligo e la televisione faranno il resto. Un resto che è cronaca, ma una cronaca ancora piena di ombre.
Secondo i test Pisa (acronimo di “Programme for International Student Assessment”) dell’Ocse il tasso di analfabetismo dei nostri giovani è sconfortante, né va molto meglio per gli adulti. Colpa anche dei dialetti e della loro vitalità? Secondo De Mauro, non è così.
Le idee educative di manzoniani come Luigi Morandi, di Francesco De Sanctis, di Giuseppe Lombardo Radice, per fare qualche nome, e cioè di insegnare l’italiano non contro i dialetti, ma a partire dai dialetti, da noi hanno trovato un flebile ascolto. La verità è che i dialetti non sono né virginali realtà alternative alla cultura d’élite (come sostengono taluni populisti); né tanto meno corruzioni dell’italiano, da rifiutare e comunque da ignorare. Invece, “sono voci non sopprimibili nel coro secolare che fa l’identità storica della cultura italiana” [De Mauro]. Fonte
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