lunedì 25 marzo 2019

Massa: “la religione dei pigri”

È giusto seminare anche se non si vedrà il frutto? La massa è la religione dei pigri e degli ignavi: vale la pena di offrirgli una prospettiva diversa sul reale, nuovi modi di vedere le cose, basati sul senso critico personale?
di Francesco Lamendola 
 
Succede sempre più spesso, ed è tipico delle fasi storiche di estrema confusione e di estrema decadenza. La gran parte delle persone non è disposta ad ascoltare una voce fuori dal coro, a prendere in esame la possibilità, anche solo in via d’ipotesi, che le cose stiano in maniera diversa da come appaiono, cioè da come vengono presentate dal Pensiero Unico, mediante la stampa, le televisioni, il cinema, e anche, duole dirlo, ma è il principale canale d'indottrinamento, dalla scuola. Non sono disposte, il che è molto più forte del non sono interessate. Se qualcuno prova a suggerire una visione diversa della realtà, se qualcuno prova a insinuare un dubbio sulla superficie piatta e uniforme del Politicamente Corretto, la reazione che scatta, sempre più di frequente, è d’insofferenza, di fastidio, di vera e propria antipatia.
In altre parole, la massa non tollera di essere avvertita, messa in guardia, posta di fronte a una nuova prospettiva: non ne vuole sentir parlare, ribatte stizzita snocciolando tutti gli argomenti uditi dalla televisione e dai giornali, con tono apodittico, di sfida: guarda con ostilità a chi osa socchiudere uno spiraglio sulla cappa asfissiante del totalitarismo ideologico in cui siamo immersi.

Naturalmente, si tratta di una reazione difensiva, originata da almeno due distinti fattori.
Il primo è l’angoscia di fronte alla possibilità che il mondo sia diverso da come ci viene raccontato, e che da ciò scaturisca, inevitabilmente, la necessità di un’assunzione di coscienza personale, cosa che spiazza e coglie impreparati, sotto tutti i punti di vista, quelli che mai si sono posti, in tutta la loro vita, una questione del genere.
Il secondo è l’irritazione che scaturisce dalla rivelazione che qualcun altro si è preso il disturbo di andare oltre, di sollevare il velo della narrazione dominante, e che sembra, perciò, aver la pretesa di porsi come più intelligente e smaliziato, il che implica la conseguenza, per l’uomo-massa, di sentirsi svalutato e disprezzato, trattato da ignorante e da superficiale - ciò che in realtà è. Ma guai a dirglielo!
L’uomo massa crede ciecamente a tutto il vangelo del Politicamente Corretto, quindi per lui vige il dogma che ogni individuo possieda pari intelligenza, pari capacità, e quindi pari diritto a esprimere una sua “verità”, come chiunque altro. Infatti il rovescio del totalitarismo democratico è il relativismo e il suo portato naturale, l’indifferentismo rispetto alla questione della verità.
O forse non si dovrebbe dire “indifferentismo”, ma ostilità: perché se la verità esiste, allora tutte queste pseudo verità soggettive, fatte a misura della comodità e della pigrizia di ciascuno, cadono come dei castelli di carta: e tutti questi uomini-massa si sentirebbero nudi come vermi, perché come potrebbero vivere senza lo straccio delle “loro” verità a coprire la loro pochezza e la loro inconsistenza?
L’ostilità verso la verità è strettamente collegata all’ostilità verso colui che apre una prospettiva ermeneutica alternativa: bisogna che costui sia un cialtrone, oltre che un presuntuoso, perché se così non fosse, se costui fosse una persona che ha fatto più strada, ha superato più ostacoli, ha compreso più cose, allora l’uomo-massa si sentirebbe umiliato e ferito nel suo orgoglio. L’uomo-massa si sente forte, se non altro per il fatto di essere in così numerosa compagnia; e questa sensazione di forza lo spinge a mostrare i denti e le unghie a chi gli si presenta da solo, forte unicamente della sua ricerca e della sua onestà e coerenza interiore.
Sorge perciò la domanda: vale la pena, in questa situazione, di offrire alla massa una prospettiva diversa sul reale; vale la pena suggerire nuovi modi di vedere le cose, basati sul senso critico personale? Non è forse una contraddizione in termini? La massa è, per definizione, incapace di pensiero critico; quindi è logico che essa reagisca irritata e infastidita a sollecitazioni di tipo critico.
Considerando le cose sotto questo punto di vista, si tratta di uno sforzo inutile: non si cava sangue dal muro e non si ottiene senso critico dalla massa; tanto meno se ne riceve un “grazie”, semmai insulti e aggressioni, a volte non solo verbali.
Tuttavia, proviamo a considerare la questione anche sotto un’altra prospettiva: la massa è formata da anonimi uomini-massa; ma in molti di loro, sia pure allo stato di quiescenza, sopravvive la potenzialità del risveglio individuale. Forse qualcuno di loro è pronto per il risveglio: manca solo l’occasione. Certo, si tratta di investire su mille per raccogliere tre, due, forse uno. Quale saggio agricoltore getterebbe alla terra mille semi, sapendo che nasceranno solo una o due piante, forse tre al massimo, e tutti gli altri andranno perduti?
Lo stesso Gesù Cristo ha raccomandato ai suoi discepoli di non gettare le perle ai porci, ammonendoli che i porci, essendo desiderosi solamente di ghiande, le calpesteranno, e si rivolteranno contro chi le avrà offerte loro. Resta nondimeno l’interrogativo: come si fa a sapere se fra tutti quei porci non c’è una bellissima principessa, vittima di un malvagio incantesimo, che attende il risveglio grazie al coraggio e alla fede in un cavaliere dell’ideale? E se ci fosse, non varrebbe forse la pena e la fatica di tentare, di prodigarsi, a dispetto di tutto?
Sempre Gesù ha raccontato la parabola dell’albero che non dava frutti, nota come parabola del fico sterile (Luca, 13-6-9), per far capire che non si deve essere troppo impazienti: l’albero che quest’anno non ha dato neppure un frutto, se opportunamente concimato, forse l’anno prossimo ne darà tanti: il buon agricoltore non ha mai fretta di porre la scure al tronco.
Disse anche questa parabola:
«Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai».
Questa speranza, questo auspicio, vale soprattutto per i giovani. L’esperienza ci dice che le persone adulte raramente si ricredono, si mettono in discussione, accettano di confrontarsi con idee che contrastano radicalmente con le mappe mentali che si sono costruite, o che hanno preso a prestito da qualcun altro, e alle quali non sarebbero disposti a rinunciare, neppure se venissero posti davanti all’evidenza. Ma i giovani, no. In loro c’è ancora qualcosa dell’apertura che è propria dell’infanzia: la rigidità, la chiusura, la presunzione e le paure dell’età adulta non li hanno ancora ingabbiati nella loro prigione invisibile; o non del tutto. La porta della gabbia è ancora socchiusa, grazie al cielo. Se qualcuno suggerisce loro che la porta non è chiusa con il chiavistello e che c’è un mondo, al di fuori, fatto di libertà nella verità, anziché di schiavitù nella menzogna, forse qualcuno di loro sarà disposto a fare la prova. Non subito, magari; anzi, difficilmente subito.
I giovani sono spaventati, diffidenti, sospettosi: troppe voci carezzano i loro orecchi promettendo, ciascuna, libertà e verità. Come fanno a distinguere? Come fanno a fidarsi? Ci vuole tempo; quindi, ci vuole  molta, molta pazienza. Una enorme pazienza. Chi ne è sprovvisto, lasci perdere i giovani. Osiamo dire che chi non la possiede, e non è disposto a cercare di acquistarla, non dovrebbe mettere  al mondo dei figli: perché la prima virtù che si richiede a un genitore, di questi tempi, è proprio la virtù della pazienza: troppe sono le forze avverse che si frappongono fra loro e i buoni esempi che gli adulti talvolta offrono; mentre un tempo i buoni esempi erano frequenti e gli ostacoli che impedivano ai giovani di riceverli e di farne tesoro erano, in confronto, relativamente pochi. Ma chi possiede la virtù della pazienza, fa bene a provare, riprovare ed insistere, ben sapendo che i frutti non si vedranno subito. In questo momento storico, che stiamo vivendo, è anzi probabile che i frutti li vedrà la generazione prossima ventura - nel migliore dei casi.
Il buon agricoltore deve seminare sapendo che non raccoglierà; ma che forse, dopo di lui, qualche seme germoglierà, e darà vita alla nuova pianta. Ci vuole pazienza, e ci vogliono anche fede e coraggio. Ci vuole un animo generoso, capace di lavorare in pura perdita, di andare avanti in passivo.
Questo è il momento della generosità; o, se si preferisce, diciamolo pure: questo è il momento dell’eroismo. Eroismo da parte di chi si rivolge ai giovani; ma anche eroismo da parte dei giovani stessi. Chi dice ai giovani che la loro età è l’età del divertimento e della spensieratezza, mente e li inganna; oppure li sta tradendo, per consegnarli, inermi e impreparati, alle prove che li attendono.
Tutto, oggi, nella vita sociale, o quasi tutto, tende a trascinare le persone nel vortice dell’irresponsabilità, cioè nella massa manipolabile e strumentalizzabile. Per uscire dalla massa, ci vuole molta forza di volontà, e soprattutto ci vuole una buona ragione per farlo. Nella massa si sta al riparo, si sta al calduccio, ci si sente costantemente rassicurati e protetti; mentre chi ne esce dovrà arrangiarsi da solo, dovrà sbrigarsela da solo, e dovrà vedersela con i suoi ex compagni, che saranno ben decisi a fargli pagare il suo “tradimento”, la sua apostasia.
Perché la massa è una specie di religione: una religione idiota, ma pur sempre una religione: la religione dei pigri, dei vili e degli ignavi. E se uscire dalla massa è faticoso, lo è specialmente per un giovane, che ha bisogno di trovare conferme alla propria personalità in costruzione stando in mezzo agli altri. D’altra parte, o s’impara a uscire dalla massa e a riconquistare il proprio statuto ontologico di persone finché si è giovani, oppure, nella maggior parte dei casi, sarà troppo tardi.
Vi è quindi una vera e propria missione, oggi, da parte degli adulti che sono usciti dalla massa, nei confronti dei giovani: aiutarli a fare lo stesso. La scelta è individuale, nessuno può farla al posto di un altro; ma è molto difficile che un giovane arrivi a farla, se nessuno gli ha fornito un sia pur minimo aiuto in tale direzione. E l’aiuto che si può dare ai giovani è appunto quello di indicar loro delle nuove prospettive sul reale, dei punti di vista alternativi e controcorrente, e trasmetter loro l’amore per la ricerca personale della verità. In altre parole, trasmettere loro l’amore per la fatica, il sacrificio, l’amore disinteressato del vero e del giusto.
Tutto ciò non è mai stato facile da raggiungere; oggi è difficile perfino arrivare a concepirlo.
Per questo è difficile che sia accettato: sembra un discorso alieno, espressione d’una lingua incomprensibile. Accettarlo richiede coraggio in misura quasi eroica; e anche una certa dose di pazzia, nel senso più nobile dell’espressione. Bisogna essere un po’ come don Chisciotte della Mancia, il quale non conta i nemici, non fa l’inventario delle probabilità a suo favore, non si cura di avere le spalle coperte da qualcun altro, ma si getta nella lotta ogni qualvolta gli sembra che il suo nobile cuore glielo ordini. Ed è proprio così: per aver voglia di essere eroi, oggi, mentre tutti quanti si danno alla bella vita e si godono i piaceri più impensabili per i nostri genitori e i nostri nonni, bisogna aver un po’ della stoffa di don Chisciotte. O della sua pazzia, se si preferisce: che era, ed è pur sempre, una nobilissima pazzia.
Invece d’impazzire nel vano inseguimento del suo personale piacere, come accade all’Orlando di Ariosto, il Cavaliere dalla Trista Figura impazzisce per il troppo amore della giustizia e di tutto ciò che è bello, vero e meritevole di lode. Ce ne fosse di più, di gente che impazzisce a questa maniera, prodigandosi per realizzare un mondo migliore: invece la pazzia dell’uomo contemporaneo è quasi sempre una pazzia dovuta all’eccesso di egoismo, di avidità, di lussuria e di superbia; vale a dire una cupa e disperata pazzia, dalla quale non vi è possibilità di redenzione.
La cultura moderna, materialista e anticristiana, ha fatto di tutto per creare l’immagine dell’adolescenza come dell’età della rivolta; e a forza di ripeterlo, ha abituato i giovani a comportarsi da ribelli, oppure, se non lo fanno, a sentirsi “strani” e a domandarsi cosa c’è in loro che non va. Ma questa accentuazione a senso unico di un aspetto, fra i tanti, dell’età adolescenziale, nasconde il fatto primario: che il giovane è chiamato all’eroismo. 
L’eroismo è il sacrificio di sé in vista di un ideale superiore. L’ideale superiore che il giovane è chiamato a servire è la realizzazione di se stesso, non secondo il proprio arbitrio, ma nella verità e nella giustizia. Realizzarsi significa divenire così come si deve essere: questa, e non altra, è l’autentica realizzazione dell’uomo. Perciò il giovane deve lottare contro le forze che vorrebbero consegnarlo all’irresponsabilità e che, lusingandolo con cento miraggi di facile piacere, mirano, in realtà, a intrappolarlo e imprigionarlo in una condizione mortificante, al di sotto della vera dimensione umana, fatta solo di istinti, emozioni e impulsi passeggeri, presentati, però, come nobili e profonde passioni, che egli avrebbe il dovere di seguire, pena la mancata realizzazione di sé.
Bisogna quindi far capire ai giovani che esistono due idee completamente diverse, e opposte, su ciò che costituisce la realizzazione dell’essere umano: l’idea materialista e irreligiosa, secondo la quale l’uomo si realizza quando egli soddisfa i suoi appetiti biologici e i suoi impulsi egoistici, anche calpestando il bene altrui, la verità e la giustizia; e la realizzazione vera e profonda, che consiste nell’attuare ciò che Dio chiama ciascun essere umano a operare in se stesso.
Tuttavia, abbiamo detto che questa strada presuppone il sacrificio di sé. Non è una contraddizione affermare che in ciò si realizza la nostra vera essenza? No, perché il sacrificio riguarda il proprio Io inferiore, egoista e capriccioso, affinché possa nascere l’Io superiore, che aspira alla Verità, cioè a Dio. Come il bruco che è chiamato a divenire farfalla… - Fonte

2 commenti:

Anonimo ha detto...

René Diatkine ha detto: "Non si può pensare la funzione paterna senza pensare la funzione materna e senza pensare i legami privilegiati del padre e della madre". Tocchiamo un punto importante; il bambino ha bisogno di un padre e di una madre e di pensare che i suoi genitori si sono amati e che lui è il frutto di questo amore. Le caratteristiche psicologiche e i ruoli del padre e della madre possono variare secondo gli individui e le culture. Ma la loro congiunzione e la loro complementarità restano un bisogno del bambino."
[Colette Chiland, in "La Funzione Paterna", Borla]

Nel 1992 una psicanalista poteva ancora affermare questo (che poi è alla base della psicoanalisi, tolti questi dati di realtà tutto il castello crollerebbe; e allora si spiega perché Freud è "il grande assente" di questi tempi e nessuno lo nomina più), se lo fa oggi gli sfasciano la macchina.
E non abbiamo NESSUN dato reale per smentire queste affermazioni sorto negli ultimi 20 anni. Soltanto posizioni ideologiche di chi con la scienza (e nemmeno con la psicoanalisi che non è una scienza) ha mai avuto a che fare.

Non parliamo soltanto dei nemici della Chiesa, sono anche i nemici della conoscenza, del sapere, della sanità fisica e mentale di persone e popoli, in sintesi nemici dell'umanità.
E come tale bisogna trattarli, perché sono portatori di un'ideologia malefica diversa solo fenomenicamente da quelle tramontate nello scorso secolo. - cit. Michele Silvi

Anonimo ha detto...

http://www.marcelloveneziani.com/il-giornalista/nostalgie/era-mio-padre-ed-e-morto-da-bambino/

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