"La lettera di assunzione con cui Indro Montanelli mi prese a lavorare nella sua bottega è una delle cose di cui vado più orgoglioso. Per un ragazzo che sognava di fare il giornalista essere ammesso alla corte del Migliore era come per un aspirante pittore entrare nel laboratorio di Picasso o per un giovane attore essere scelto per il cast di Charlie Chaplin. Anche loro, tutti e due, avevano un debole per le minorenni, senza un contesto di guerra che li giustificasse, ma sono sempre piaciuti ai Torquemada della doppia morale e quindi niente quadri e film dati alle fiamme e niente statue da abbattere. Ce n’è una a Malaga del primo e una a Los Angeles del secondo, al massimo, nonostante il deprecabile vizietto degli scolpiti, chi passa di lì si fa un selfie sorridente.
Di Indro mi ricordo i fiori che mandò a mia moglie Consilia il giorno del matrimonio, un paio di comici viaggi in ascensore con lui, lo sguardo di tenerezza verso il ragazzo che ero quando per la prima volta fui spedito alla riunione dei capi perché il mio dello sport non si era sentito bene ed io, per caso, ero l’unico in redazione. Lui che quel giorno non disse una parola, mi chiese con chi giocasse la Fiorentina. Lo sapeva già ma voleva farmi sentire importante davanti a tutti. «Con il Genoa, direttore…» Rivolse la parola solo a me e se ne andò.
Ero entrato nella famiglia.
Il genio non è democratico, non si giudica con il metro dell’etica, e l’arte non è figlia delle vite immacolate. Il talento, che è un dono di Dio, mi ha sempre commosso persino più della sofferenza, anche se non sempre premia stinchi di santi e uomini educati dal galateo, forse perché a Dio piace divertirsi così, mescolando le carte e dando ai satanassi le carte migliori. Per questo amo i cartoni di Disney, anche se Walt era nazista, i Kennedy, anche se John fu eletto grazie alla mafia e mandò i sicari a casa di Marilyn, i quadri di Caravaggio, anche se era un assassino, gli scritti di Pasolini, anche se adescava prostituti minorenni nelle periferie romane, e la musica di Paganini, anche se era uno stupratore. Hitler invece non fumava, non beveva, non toccava le donne, era vegetariano. Sognava una razza pura come lui. Mi piacerebbe perciò sapere che cosa hanno creato di buono con il loro genio tante vergini marie che fanno i giustizieri da tastiera. Il moralista, diceva Oscar Wilde, di solito è un’ipocrita.
Indro è stato, e lo è a maggior ragione adesso che il giornalismo è morto, il migliore. Era anarchico più che liberale, scomodo a destra come a sinistra, non guardava in faccia a nessuno, nemmeno a chi lo amava, i nazisti lo misero in prigione e i comunisti gli spararono addosso, fustigava la borghesia che lo adorava e quella radical chic lo voleva morto. Quando venne a sapere che Inge Feltrinelli e Gae Aulenti avevano brindato a chi gli aveva sparato alle spalle disse ironico: «Anche se non sempre scelgo bene i miei amici, scelgo benissimo i miei nemici». Era troppo moderno e all’avanguardia per essere razzista: «La lettura del Mein Kampf io la renderei per legge obbligatoria - scriveva - è un caciucco di coglionerie».
Nell’ansia di scimmiottare il Black Lives Matter quelli che processano le vite degli altri in nome di un pregiudicato rapinatore non hanno trovato di meglio che prendersela con la statua del Migliore. Ma in realtà non vogliono processare un comportamento di ottant’anni fa ma criminalizzare un pensiero che non sia il loro attraverso l’attacco ai suoi simboli, vogliono colpirne uno per educarne cento come predicavano in nome di Mao le Brigate rosse, e come piaceva a quel Lenin che gli indignados hanno disegnato sui murales insieme a Floyd, perché quando hai ridotto l’avversario a niente, a puro nemico da odiare, a simbolo di ogni male poi non ti fai più scrupoli a eliminarlo. Lenin l’ideologo di un Olocausto da cento milioni di morti, l’ispiratore di quelli che gli spararono e dei paladini moderni dell’etica umanitaria.
Indro non era solo talento, ma un’educazione. A non aver paura delle verità anche scomode, a non fare parte di nessuna setta, a non sposare versioni di parte, a non avere padroni tantomeno ideologici, a non portare il cervello all’ammasso. Il contrario degli ultras da tastiera creati dai social diventati catatonici persino davanti all’evidenza dei fatti. Diventò amico dei brigatisti rossi che gli spararono a due passi dalla statua, li aiutò nella vita, perché capì che a caricarli di odio manicheo era stato quel mostro chiamato ideologia che si trasmette di generazione in generazione attraverso l’ignoranza.
Nessuno oggi è più moderno del suo non stare con nessuno se non dalla parte del libero pensiero contro ogni integralismo fanatico. Sono le sante inquisizioni, i talebani, i giacobini di ogni generazione, che lo vogliono morto anche adesso che non è più vivo. Per questo sono orgoglioso di quella lettera di trent’anni fa e di quel monumento alla libertà di pensare quello che ti pare. Non passeranno. Del resto lo diceva anche lui: «Non c’è alleato più prezioso di un nemico cretino…»"
Massimo Veronese
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