Resistono meglio le piccole città identitarie, fuori dai tracciati, mentre sopravvivono come relitti in piena decadenza alcuni tratti identitari nelle grandi città, sommersi tra quartieri brutti e gonfi, palazzoni tristi, luoghi malfamati, dove si dimostra il nesso mortale tra bruttura e delinquenza, tra degrado urbano e degrado umano. I centri storici, gli insediamenti preistorici, le cattedrali e le mura sono gli ultimi recinti, le estreme vestigia, che resistono strenuamente ai barbari di fuori e di dentro.
Si dovrebbe adottare un marchio doc, un timbro di qualità, per le cittadine che mantengono viva la loro identità e non solo per scopi banalmente turistici o pigramente inerti. E si dovrebbe quasi cercare di metterle in rete, di costituire una sorta di Associazione, Lega o meglio comunità delle città identitarie.
La ricchezza plurale delle città identitarie e la loro salvaguardia dovrebbero costituire il cuore del patrimonio storico italiano e il simbolo araldico della sua nobiltà irriducibile alla globalizzazione e irriproducibile altrove.
Identità vuol dire confini e loro tutela, vuol dire fedeltà alle origini e culto dei ricordi e della gloria storica e della santità; vuol dire cultura della conservazione, nel segno della memoria e nel nome della bellezza.
A volte, quando sono trascurate o quando sono guidate da chi aderisce solo al presente e bada solo all’utilità funzionale e alla convenienza del momento, le città identitarie si ammalano, i loro muri portanti crollano, le loro chiese si spengono, i loro gioielli s’intristiscono e scivolano nella penombra. Lo coglieva col suo occhio implacabile PierPaolo Pasolini, lo ricordai nella mia Lettera agli italiani (ed. Marsilio, 2016). In un memorabile articolo del ’69, Pasolini raccontò di aver sognato che l’Italia fosse un bambino. Quel bambino avvertiva di non essere amato e così decideva di lasciarsi morire. Scriveva Pasolini: “Se un bambino sente che non è amato e desiderato – si sente “in più” – incoscientemente decide di ammalarsi e morire: Tutto ciò che per secoli è sembrato perenne e lo è stato in effetti fino a ieri, di colpo comincia a sgretolarsi, contemporaneamente”. Le cose, per Pasolini, sono assolute e rigorose come i bambini; e se un bambino non si sente amato e desiderato, inconsciamente decide di ammalarsi e deperire. “Così stanno facendo le cose del passato, pietre, legni, colori” (raccolto poi in Caos).
L’Italia dei mille borghi e delle mille identità è un vecchio che si è ammalato perché si sente di troppo e avverte di non essere amato. Senza fiducia in se stesso, una città, un paese è perduto. Non ha incentivi per creare e restaurare, per intraprendere e per inventare, per rifondare, per fare comunità. Ma sfugge, si barrica nel suo egoismo, cerca di trarre profitto dallo sfascio, pensa solo a sopravvivere. Un paese sfiduciato, spompato, depresso, pieno di vecchi e scarso di bambini. L’Italia nei suoi centri storici è un vecchio malato che ha bisogno di sentirsi amato per amare a sua volta la vita, il futuro, i suoi padri, i suoi figli.
Non coglie più la differenza tra la senescenza del vecchio e la nobiltà dell’antico, non capisce la curvatura del tempo, la necessaria virtù dei ritorni, il disegno, il mito, l’aspirazione che guidò la fondazione di una città. E così lascia che il paesaggio vada in rovina, che s’inacidiscano gli animi e le strade di un paese. Quando si parla di ecologia, di ambiente inquinato, si dovrebbe comprendere anche la devastazione ambientale delle città, la perdita d’identità di un borgo… Natura e cultura sono sorelle.
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