Un estratto di Trump contro tutti. L'America (e l'Occidente) al bivio (Historica-Giubilei Regnani) di Stefano Graziosi e Daniele Scalea
Prima sfida: sul piano globale, la dittatura comunista cinese, con il suo espansionismo, il suo militarismo, la sua attitudine alla repressione della libertà non solo entro gli immensi confini nazionali, le sue pratiche commerciali scorrette, la sua capacità “acquisitiva” e di esercizio di influenza geopolitica.
Seconda sfida: nel nostro campo occidentale, la cancel culture come stadio ulteriore e più aggressivo del politicamente corretto, come volontà di accreditare una sola lettura della storia, come propensione a schiacciare il dissenso, come colpevolizzazione costante dell’Occidente e della nostra civiltà, come inclinazione orwelliana a imporre l’uniformità in nome del la diversità (nella neolingua oggi corrente, prima ci si spiega che le diversità sono una ricchezza, e poi però si bastona selvaggiamente ogni opinione dissenziente e non omologata).
Inutile girarci intorno: in assenza del terremoto sanitario ed economico causato dal Coronavirus, Donald Trump sarebbe stato avviato a una riconferma larga e spettacolare. Basti pensare che, grazie ai suoi tagli di tasse e un andamento economico record, ancora a febbraio scorso, prima del Covid 19, la disoccupazione negli Usa risultava pressoché azzerata, al 3,5%, ai minimi da oltre cinquant’anni. Dopo di che, il Coronavirus ha cambiato tutto. Secondo gli avversari di Trump, a causa della sua sottovalutazione specialmente iniziale del problema. Secondo gli osservatori meno prevenuti, per un oggettivo tsunami senza precedenti determina tosi in mezzo mondo, e quindi anche in America.
Certo, Trump inizia la volata finale della campagna elettorale in ritardo, secondo tutti i sondaggi. Allo stesso tempo, però, non va dimenticato che si tratta dei medesimi sondaggi che quattro anni fa lo davano per spacciato. Morale: è saggio riconoscere che oggi il presidente uscente è costretto a inseguire, ma è altrettanto prudente non darlo già per sconfitto. Anche perché, e questo mi pare sia il cuore del ragionamento e del racconto di Graziosi e Scalea, qualunque sia l’esito del voto di novembre, un numero elevatissimo di elettori Usa (circa la metà) e alcuni problemi non spariranno affatto, ma resteranno eccome. I colletti blu della Rust Belt (e non solo quelli), un ceto medio e medio-basso il cui living standard era crollato da anni (e che aveva visto proprio nel quadriennio Trump i primi segnali di una controtendenza positiva), un pezzo enorme di società americana che non ha nulla a che vedere con il tenore di vita, le conversazioni, le atmosfere di New York o della California: ecco, questi elettori, questi americani, ci sono e ci saranno ancora. A loro Trump ha dato voce, e c’è da immaginare che – in una forma o nell’altra – continuerà a farlo.
Qualcuno si illude, battendo Trump, di poter ridurre la sua presidenza a un “incidente” da superare, per tornare al solito piccolo mondo antico: operazione che può certamente riuscire dal punto di vista mediatico, ma non dal punto di vista sociale, dove alcune ferite resteranno aperte, profonde e non medicate. E non sarà certo il ritorno dei “dottori” e degli “infermieri” di prima, quelli che per lunghi anni non avevano saputo azzeccare né la diagnosi né la terapia, a migliorare le cose. Anzi, quel vecchio establishment non aveva nemmeno saputo ascoltare i “pazienti”, comprenderne i mali, il disagio, i sentimenti: e li aveva invece apostrofati (ci pensò Hillary Clinton con una battuta destinata a rimanerle tatuata addosso) come “deplorables”.
Per molti versi, siamo dinanzi al più clamoroso degli errori che possa essere commesso da politici e commentatori: essere così concentrati sul proprio avversario da dimenticare gli elettori, le ansie e le domande politiche a cui il “nemico” ha saputo dare una risposta. Del resto, il pregiudizio negativo e l’applicazione rigida di schemi precostituiti sono stati gli attrezzi utilizzati pure per interpretare la politica internazionale di Trump, a lungo presentato come un isolazionista, descritto in termini cupi e negativi, ovviamente in contrapposizione ai toni lirici usati in passato per esaltare Barack Obama, poco spiegabilmente insignito nel 2009 nientemeno che di un Nobel per la pace. Eppure, a ben vedere, il costante arretramento degli Usa obamiani (non solo un ritiro militare da alcuni teatri, ma un passo indietro morale e politico rispetto a diversi dossier cruciali) ha determinato la creazione di un vuoto, di un vacuum sistematicamente sfruttato dagli avversari dell’Occidente: dalla Cina, dall’Iran, oltre che dal terrore islamista. Al contrario, Trump, pur fiero avversario delle endless wars, come spiegano Graziosi e Scalea, ha riaffermato una postura assertiva degli Stati Uniti in tutte le partite più delicate, facendo riguadagnare all’America il centro del ring: si pensi al confronto con Pechino, e, su un altro piano, al progressivo isolamento di Teheran, ottenuto grazie all’avvio di un inedito dialogo – favorito da Washington – tra Gerusalemme e la parte più aperta e riformatrice del mondo arabo.
Per molti versi, siamo dinanzi al più clamoroso degli errori che possa essere commesso da politici e commentatori: essere così concentrati sul proprio avversario da dimenticare gli elettori, le ansie e le domande politiche a cui il “nemico” ha saputo dare una risposta. Del resto, il pregiudizio negativo e l’applicazione rigida di schemi precostituiti sono stati gli attrezzi utilizzati pure per interpretare la politica internazionale di Trump, a lungo presentato come un isolazionista, descritto in termini cupi e negativi, ovviamente in contrapposizione ai toni lirici usati in passato per esaltare Barack Obama, poco spiegabilmente insignito nel 2009 nientemeno che di un Nobel per la pace. Eppure, a ben vedere, il costante arretramento degli Usa obamiani (non solo un ritiro militare da alcuni teatri, ma un passo indietro morale e politico rispetto a diversi dossier cruciali) ha determinato la creazione di un vuoto, di un vacuum sistematicamente sfruttato dagli avversari dell’Occidente: dalla Cina, dall’Iran, oltre che dal terrore islamista. Al contrario, Trump, pur fiero avversario delle endless wars, come spiegano Graziosi e Scalea, ha riaffermato una postura assertiva degli Stati Uniti in tutte le partite più delicate, facendo riguadagnare all’America il centro del ring: si pensi al confronto con Pechino, e, su un altro piano, al progressivo isolamento di Teheran, ottenuto grazie all’avvio di un inedito dialogo – favorito da Washington – tra Gerusalemme e la parte più aperta e riformatrice del mondo arabo.
Semmai, in questo scenario, è il “terzismo” europeo, cioè una certa ambiguità dell’Ue a trazione tedesca, a dover preoccupare, con l’illusione pericolosa di schierare l’Europa su una posizione di equidistanza tra la Nato e le potenze orientali e asiatiche. Ma le élites europee, anche su questo, hanno la scusa pronta: è sempre colpa di Trump, dei suoi toni e dei suoi modi, come se il carattere di un presidente americano potesse giustificare un nostro atteggiamento geostrategico non chiaro. E allora, facciamoci guidare – oltre che dal saggio di Graziosi e Scalea – da un metodo, quello illustrato dall’ex governatore della Bank of England, il grande Mervyn King. Quando veniva convocato da una Commissione parlamentare e gli veniva chiesto di fare una previsione, il banchiere invariabilmente rispondeva: «Non sono un veggente e non dispongo di una sfera di cristallo». King aggiungeva di poter solo delineare scenari e preparare altrettante coping strategies, cioè ragionare come affrontare queste diverse ipotesi.
Il primo scenario – più desiderabile per chi scrive, ma oggi meno probabile – è quello di una riconferma di Donald Trump. È evidente che in questo caso il presidente sarebbe fortissimo, in patria e fuori. Lo stesso deep state dovrebbe farsi una ragione del suo nuovo quadriennio, e, quanto ai riflessi sulle realtà a noi più vicine, le cancellerie europee non potrebbero continuare nella loro spocchiosa ostilità. Semmai, sarebbe lui, The Donald, a poter giocare all’attacco, per un verso stringendo un rapporto ancora più for te con il Regno Unito post Brexit, e per altro verso, dentro i confini dell’Ue, incoraggiando i governi (o i leader d’opposizione) più capaci di determinare un riequilibrio di potere rispetto all’asse francotedesco, in qualche misura promuovendo un contrappeso ri spetto al triangolo Berlino-Parigi-Bruxelles. E proprio qui l’Italia dovrebbe cercare di cogliere l’occasione, senza colpi di testa, ma in modo razionale e composto, per agire su due fronti: da un lato, conservando il proprio posto nell’Unione, ma dall’altro partecipando alla costruzione di una sorta di “anello” anglo-medi terraneo-europeo dell’Est, che (passando da Washington a Londra, da Gerusalemme alle capitali dei paesi mediterranei, e arrivando a molti governi dell’Est Europa) prefiguri alleanze più complesse, più artico late, meno scontate. Che ci verrebbero utili anche per promuovere una rinegoziazione delle regole europee: ad esempio, come sostenni inascoltato a suo tempo, rivendicando per i 27 paesi rimasti nell’Ue almeno le concessioni e le autonomie che erano state ottenute da David Cameron per il Regno Unito, a inizio 2016, prima del referendum su Brexit.
Il secondo scenario è quello di una vittoria di Joe Biden e della sua running mate Kamala Harris. Inutile nasconderselo: la grancassa mediatica sarebbe assordante, e il tentativo dei politici d’establishment e dei mainstream media sarebbe quello di proclamare la fine di una stagione, il declino di sovranisti e populisti, il ritorno alla “normalità”. Ma sarebbe un calcolo sbagliato, perché, come detto, anche una volta battuto Trump, non scomparirebbero i suoi elettori. Tuttavia, spostandoci sul versante dell’opinione pubblica europea pro Trump, sarebbe un errore reagire in modo nervoso e poco meditato, praticando verso l’eventuale amministrazione Biden l’ostilità che altri hanno stoltamente riservato per anni a Trump. Gli Stati Uniti sono e resteranno amici chiunque li guidi pro tempore. Certo, gli eurolirici festeggerebbero, illudendosi di aver dato respiro a un progetto Ue che resterà invece per molti versi fragile. Gli altri (i conservatori, i liberali veri, gli atlantisti, i non omologati al mainstream progressista) faranno bene a mantenere i nervi saldi e a non perdere la bussola. E a organizzare una battaglia culturale robusta, non minoritaria, non estremista, sempre inclusiva. Buona lettura, intanto, e grandi complimenti agli autori di questo libro. (Daniele Capezzone - Fonte)
1 commento:
https://lacrunadellago.net/2020/10/14/lultimatum-di-trumparrestate-obama-e-biden-per-lo-spygate-in-arrivo-il-colpo-definitivo-al-deep-state/
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