mercoledì 24 novembre 2021

Il testacoda del politically correct

Dobbiamo essere contenti che la Repubblica, una delle principali ditte che sfornano da noi il politicamente corretto, abbia ingaggiato una crociata contro il politicamente corretto, fino a pubblicare il bel Manifesto del libero pensiero di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, diventato nel frattempo editorialista del medesimo quotidiano? Tutto sommato direi di sì, è un passo avanti. Potrete definirlo una furbata del giornale, una di quelle che fanno gli italiani che sanno essere conformisti pure nella trasgressione, e vogliono essere col Potere ma con la nomea di spiriti liberi. Potrete obbiettare che è solo un contentino di facciata, senza un minimo di autocritica, perché poi il giornale resta sempre quello, spaccia in dosi massicce lo stesso codice PC, ha una lista nera di temi e autori scorretti che reputa morti o mai nati, seppure viventi; e poi usa Ricolfi come bicarbonato. Qualcuno ricorderà che nel frattempo l’unica voce un po’ dissonante, quella di Federico Rampini, è stata costretta a migrare peraltro in un altro padiglione della Stampa Conforme, il Corriere della sera, che ha però ingaggiato un’altra madonna pellegrina del Politically Correct uscito da Repubblica, Roberto Saviano. O potrete attribuire il timido segnale a un effetto di ritorno del direttore Maurizio Molinari, che di sinistra non è o perlomeno non era.

A noi però piace vedere il bicchiere mezzo pieno, senza chiederci almeno adesso se contenga bibita o cicuta, e ritenerlo un passo avanti, nonostante tutto. Fa impressione e piacere leggere sul libro che la Repubblica ha diffuso nei giorni scorsi col giornale: “l’ideologia fondamentale del mondo progressista è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment”. Ragazzi, non è la Verità e paraggi, è Luca Ricolfi & Signora su la Repubblica… Per il giornale un testacoda, un outing da restare basiti. Da che pulpito. Censurato da altri giornaloni, Ricolfi, dopo un breve purgatorio, è stato riammesso nelle cattedrali del Pc, e non dalla porta di servizio. Certo, lui si definiva di sinistra anche quanto denunciava lucidamente la sinistra antipatica. E presenta il suo manifesto premettendo che un tempo la censura era di destra e la libertà d’espressione di sinistra, giacché la cultura dominante era “conservatrice, autoritaria e un po’ bigotta”. Poi qualcosa è avvenuto, alla fine degli anni settanta, dice Ricolfi. Vero. Magari avrebbe dovuto ricordare che era l’onda lunga del ’68 che mutava da ribellione in canone. Quel sessantotto fallito come rivoluzione politica e anticapitalista riuscì come rivoluzione di costume, al punto da diventare il nuovo conformismo di oggi.

È sacrosanta la sua denuncia della “Caporetto dell’ironia” e la perdita della giocosità rispetto alla gioiosa dissacrazione dei contestatori, o meglio di una loro allegra fazione; ma è il riemergere di una tendenza cupa e costante del vecchio sinistrismo comunista. Non dimentichiamo che l’ironia, la satira e la giocosità erano storicamente fiorenti a destra, perfino tra i conservatori e i reazionari, ma non a sinistra. Dai tempi di Papini e dei futuristi alle riviste di Longanesi, dal Candido di Guareschi al Cabaret. Cambiò qualcosa a sinistra col Male o con Cuore di Michele Serra, che era uno spirito creativo ma ora è diventato proprio su la Repubblica uno dei custodi più arcigni del P.C. sinistro.

Non citerò gli argomenti usati nel Manifesto, perché notoriamente da queste parti li condividiamo e li scriviamo ormai da anni. Ho avuto invece un flashback inaspettato leggendo la sua critica ironica al linguaggio falso e corretto. Quarant’anni fa, da ragazzo, scrissi un articolo e poi un pamphlet e in un capitolo dedicato a “Il progresso in una parola” facevo le stesse osservazioni ironiche: “Fallita la rivoluzione sociale, ci si accontenta ormai della rivoluzione lessicale” e dopo un divertito elenco notavo “la dissociazione profonda” tra le parole e la realtà e la riduzione della rivoluzione sociale e umanitaria a “finzione lessicale”. In quel tempo a sinistra l’unica a criticare quel linguaggio “artificioso e ipocrita” era Natalia Ginzburg. Davo allora una spiegazione che non trovo nel Manifesto: quel rococò dell’ipocrisia nasce per risarcire della mancata rivoluzione, non potendo cambiare la realtà si cambiano le parole per indicarla; le parole sostituiscono i fatti. Dovrei essere contento di vedere quelle osservazioni semiclandestine di allora diventare tesi di un manifesto de la Repubblica; e invece mi sconforta che 40 anni dopo siamo ancora allo stesso punto, anzi peggio, se lo certificano pure i Giornaloni.

Nel manifesto dei Ricolfi c’è tuttavia un tema rimosso: quando giustamente nota il gioco sporco che si fa sugli “anti” per incriminare chi dissente, accusandolo di razzismo e omofobia, si omette il padre di tutti gli anti, l’abuso corrente di antifascismo. Non discuto le convinzioni e i giudizi sul fascismo e l’antifascismo, naturalmente; sottolineo piuttosto il loro uso improprio, perenne e crescente per demonizzare ogni avversario e ravvisare sempre e ovunque rigurgiti fascisti. E sottolineo soprattutto il senso nascosto di questa operazione di falsificazione e distrazione: sostituire l’anticapitalismo con l’antifascismo. Anche qui, fallita la lotta contro il capitalismo e diventati guardie rosse del capitale, il nemico non è più reale ma immaginario; ed essendo immaginario, possono adattarlo a chiunque dissenta. Ma questo, mi rendo conto, non si può dire su la Repubblica dove il clero dell’inquisizione antifascista è operativo h24 in pompa magna. Però è quello l’architrave e l’archetipo di tutti gli anti che poi ne discendono.

Detto questo, torno a dire: comunque è un piccolo passo avanti per la civiltà e per l’intelligenza del reale. Ed è un vero piacere leggere una mente libera sull’organo di Polizia Culturale. Marcello Veneziani, La Verità (21 novembre 2021)

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