martedì 4 febbraio 2020

Quod Erat Demonstrandum 91: koinè e demos in Europa


Oggi, al ritorno dalla palestra, trovo questo messaggio di un amico: 
Riguardo il post antologico sulla Brexit, mi è tornato in mente un tuo intervento al Parlamento europeo (22 aprile 2015), in cui (tra le altre cose) sottolineavi (lo traggo dalla traduzione di Voci dall'Estero) che non era detto che dare più poteri al PE avrebbe significato maggiore democrazia, facendo questa ipotesi (cito): "Forse eleggeremo una volta un presidente lituano, che sarebbe veramente una buona idea, che farà una campagna elettorale nella lingua dell’unico paese che nel frattempo se ne sarà andato, che è l’Inghilterra".
Mi pare un QED niente male, ma capisco che non essendo un post su Goofy, nell'antologia (dei post di Goofy) non poteva andarci...
Mia risposta: Questo concetto lo avevo già espresso a dicembre 2013.
In effetti, alle 13:35 del 7 dicembre 2013 mi era capitato di dire queste testuali parole:
Non c'è una democrazia sovranazionale, non è possibile, non esiste un demos europeo. Quando eleggeremo in modo diretto il Presidente dell'Unione Europea, lo faremo con una campagna elettorale che sarà condotta in inglese, cioè nella lingua dell'unico paese che nel frattempo sarà uscito dall'Unione Europea (applausi).
Trovate tutto qui (la frase, in particolare, si trova nello spezzone che comincia alle 13:24).
Del rapporto fra progetto europeo e democrazia abbiamo poi parlato in modo più approfondito, affrontandolo sotto varie angolazioni: politologica, etnologica, sociologica, neurologica (sì, anche quella), ma insomma, per restare sul punto, voi vi ricordate un dibattito sulla Brexit nel 2013? Qualcuno la prevedeva? Qualcuno ne parlava? Ci sono voluti 2246 giorni, ma quella cosa che all'epoca vedevamo veramente in pochi (qualcun altro ci sarà stato, e me lo ricorderete nei commenti) alla fine è successa.

Se potessero capirlo, girerei questo post ai miei colleghi "de sinistra" che non credo sappiano bene perché io sono in Senato con loro, e perché quando parlo la gente mi sta a sentire (compresi loro). Ma non credo che ne varrebbe la pena: ci sono cose che se potessero essere capite non andrebbero spiegate, e se ho deciso di militare nella Lega è perché sapevo di poter sostenere lo scherno dei poverini.
Ora, molti di voi stanno ancora giustamente gioendo per la Brexit.
Gioiscono per un popolo che ha avuto il coraggio di affermare il proprio diritto all'autodeterminazione, in dissonanza dalla retorica "de sinistra" secondo cui dagli jukaghiri agli asháninka tutti i popoli hanno diritto di autodeterminarsi tranne il nostro.
Gioiscono anche perché in quanto è accaduto, che se non è una nostra vittoria, è almeno una cocente sconfitta del nostro nemico, vedono giustamente un barlume di speranza.
L'uomo fa la differenza, e certo Boris Johnson è stato determinante. Ma che non potesse finire altro che così a me, personalmente, è stato sempre chiaro: se lo davo per scontato nel 2013, non posso esserne sorpreso nel 2020. Questo, naturalmente, toglie alla constatazione di un indubbio progresso il piacere della sorpresa. La razionalità economica non poteva non prevalere: lo avrebbe capito anche un bambino. Dobbiamo trarne una lezione: la razionalità economica prevarrà.
Mi rendo conto che questa affermazione non basterà ai tanti avventori del bar Twitter pronti a passare dall'euforia più scomposta alla più cupa disperazione solo perché a Giorgetti o a Salvini vengono attribuite dalla stampa frasi che non hanno mai detto, o azioni che non hanno mai compiuto. Di questa gente dalla tempra morale friabile, dallo spessore intellettuale evanescente, sapremo fare a meno. Io, prima, le cose le spiego, ma poi, se non riesco a farmi capire, mi rassegno.
I processi sociali sono complessi, e, come quelli biologici, caratterizzati da rilevanti margini di incertezza. Come ci siamo detti in altra sede, non è perché non sa predirti la data della tua morte che un medico non è un buon medico. Di converso, il predire esattamente la data della tua morte non fa di un chiromante uno scienziato. Se mi avessero chiesto il 7 dicembre 2013 quanti giorni ci sarebbero voluti, non avrei saputo rispondere: 2246. Ma non per questo ho smesso di confidare nelle lezioni della Storia e dell'Economia. Oggi vi chiedo di guardare indietro, di rendervi conto di quanta strada abbiamo fatto, e di interrogarvi sul perché ci siamo riusciti.
Credo che questo post possa aiutarvi a capirlo.
Poi, naturalmente, c'è chi non vuole capire.
E ora, torno a studiare...
Alberto Bagnai - Fonte

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il festival della canzone di Sanremo è, da sempre, lo specchio della società che cambia e della quale è, per così dire, un infallibile sismografo. E di mutamenti nella società ve ne sono stati molti e decisivi, che hanno scandito il transito da un capitalismo ancora borghese, con il senso dell’autorità e del limite, al nuovo capitalismo assoluto di libero consumo e di libero costume. Il passaggio si evince limpidamente, se si osservano i mutamenti nelle canzoni e nei costumi degli artisti che si sono succeduti sul palco dell’Ariston. Fino ai giorni nostri, fino al tempo della “compiuta peccaminosità” e del “regno animale dello Spirito”. Il passaggio epocale si coglie, dicevo, nel mutare delle forme dell’arte e della canzone. Nel passaggio, se vogliamo dire così, da Caravaggio alla merda d’artista inscatolata. E, insieme, dagli artisti che si esibivano a Sanremo negli anni Sessanta a quelli che hanno solcato ieri sera il palco dell’Ariston. In sintesi, è stato un osceno spettacolo di postmodernizzazione avanzata. Dove in primo piano è emersa l’usuale catechesi globalista, tesa a rieducare le plebi al politicamente corretto e all’eticamente corrotto. Non si dimentichi, a tal riguardo, che tutto era principiato con la rampognata inflitta al conduttore Amadeus, reo di aver violato il tabù genderisticamente corretto. Più volte, sul palco, Amadeus si è cosparso il capo di cenere, pagando il suo pegno al verbo unico politicamente corretto. Il non plus ultra della catechesi e del nuovo ordine mentale è stato raggiunto, ça va sans dire, con Rula Jebreal, la vestale del cosmopolitismo liberista, l’irriducibile nemica del populismo e del sovranismo, cioè del possibile ritorno di quelle sovranità popolari che altro non sono se non le democrazie tanto aborrite dai padroni no border e dai loro armigeri senz’anima. L’oropedizzazione televisiva delle coscienze ha avuto un tema decisivo: l’aggressione al sacro. A partire dall’incipit – volgare quanto blasfemo – di Fiorello. Che, nei panni di un prete, ha penosamente simulato una messa in diretta. L’offensiva ai danni del sacro è seguitata con un artista dalle movenze e dallo sguardo stralunati, tale Achille Lauro: il quale addirittura ha emulato il San Francesco di Giotto, che si spoglia dei suoi averi. E si è esibito mezzo ignudo, senza ritegno. Offendere il sacro e i costumi non viola il codice politicamente corretto. Ne è anzi parte integrante. In sostanza, vedere Sanremo è utilissimo, per comprendere l’abisso di nichilismo e omologazione, di alienazione e instupidimento in cui l’Occidente è precipitato.
Diego Fusaro