Tentiamo di rendere giustizia di quella opinione, di conio liberale, divenuta poi giudizio storico e letterario indiscutibile, sul presunto ateismo di Giacomo Leopardi. A fugare ogni dubbio qui dovrebbe bastare una lettura non distratta de “L’Infinito”; nondimeno di seguito riportiamo un estratto di “Cento problemi di fede”, di Pier Carlo Landucci, donde si evince una vera e propria attività di occultamento ai posteri della fede inquieta del Poeta, condotta post-mortem dal di lui coinquilino Antonio Ranieri, al fine di renderne la figura gradita - ma distorcendone con evidenza la sostanza - a quei circoli, liberali e massonici, impegnati nella indefessa fabbricazione di miti, o, per così dire, di santi laici (celebre il caso di Giordano Bruno) di cui vi era una strenua necessità legittimante per conferire credito all’Italia in fieri e forgiare gl’Italiani. Le medesime forze che ieri agivano per demolire il trono e l’altare, mentre oggi lottano per erigere il “totalitarismo della dissoluzione”, secondo la pregnante definizione di Del Noce, cioè un universalismo desacralizzato e fortemente ideologico, un vero e proprio Cattolicesimo rovesciato, che assuma gli spazi di ogni residuo particolarismo identitario.
“Il pessimismo [di G. Leopardi], leva fondamentale della sua crisi, era più capace d’indurre a disperazione che a mancanza di fede vera e propria, era più capace di coprire la fede che di spegnerla.(…)
Vari espliciti ritorni di fede - e di fede praticante - in piena crisi spirituale, stanno a dimostrare che era una fede dimenticata, non distrutta. Per es. a trent’anni (Leopardi morì nel 1937, a 39 anni), quando, alla morte di suo fratello Luigi, suo padre gli scrisse di comunicarsi, come avevano fatto tutti in famiglia, rispose di averlo fatto. E quando quattro anni dopo, inviò al De Sinner (24 maggio 1832; vedasi l’Epistolario, Le Monnier, Firenze) una lettera giudicata particolarmente miscredente, al padre però, esprimendo il suo cupo desiderio di morte, scriveva: "Chiamo Iddio in testimonio della verità di queste mie parole. Egli sa quante ardentissime preghiere io gli abbia fatte (sino a far tridui e novene) per ottenere questa grazia".
Come si sa, negli ultimi sette anni, quasi ininterrottamente, Leopardi visse con lo scrittore, poi deputato e senatore, Antonio Ranieri, scapolo come lui, che in qualche modo lo segregò, e fu l’unico a dare testimonianza della sua morte, alla quale disse di essere stato, egli soltanto, presente, insieme alla propria sorella e al medico. Il Ranieri dichiarò che Leopardi si era spento quasi all’improvviso e non poté ricevere quindi, da un frate chiamato d’urgenza, che le ultime preghiere dei morti. Il che escluderebbe il cosciente e attuale ritorno in seno alla religione.
Ma la testimonianza, apparentemente decisiva, è tutt’altro che dimostrativa. Innanzi tutto si domanda perché il Ranieri, niente affatto tenero verso la religione, avrebbe fatto chiamare d’urgenza il sacerdote, se non con l’intento che avesse potuto amministrare i sacramenti al poeta, e come avrebbe potuto pensare a ciò se non fosse stato consapevole dei sentimenti religiosi del grande e intimo amico. Tali sentimenti sono di fatto efficacemente espressi da una lettera al padre, scritta 15 giorni prima della morte, in cui prega tutti i suoi di raccomandarlo a Dio.
C’è poi qualcosa di positivo, molto più preciso (cfr.: Federici, in "Casanova" di Recanati, anno 89, n. 73). Mentre il Ranieri dava ufficialmente e pubblicava (cfr.: Sette anni di sodalizio con G.L 1880) la versione suddetta della morte, al padre Monaldo Leopardi egli stesso ripetutamente scriveva che Giacomo era morto "non senza essere stato munito e antecedentemente e allora stesso, dei più dolci conforti della nostra santa religione". Non basta. Il Conte Monaldo si rivolse anche, per notizie, al segretario della nunziatura di Napoli, il recanatese Mons. Balletti, il quale pure scrisse: "Giacomo morì in poche ore, assistito e consolato dalla religione". In tal senso si ebbero anche le testimonianze del Cardinale Alimonda e del modenese Avv. Brighetti. Ma soprattutto vi è testimonianza di un teste oculare, né dal Ranieri, né da altri mai smentito, il notaio Leonardo Anselmi di Porto Maurizio, che dichiara: "Mi trovai in casa Ranieri il giorno della morte del Conte. Verso le 4 pomeridiane il Leopardi chiamò la sorella di Antonio Ranieri, la quale vestitasi in fretta uscì di casa e ritornò col Parroco, il quale verso le 6 pomeridiane gli portò il Viatico. La morte avvenne alle 8 o alle 9 di sera. A tutti questo mi trovai presente e mi ritirai verso mezzanotte. La mattina seguente, verso le 9, ritornai in casa Ranieri e vidi che gli facevano la maschera".
Infine, a sovrabbondante conferma, nel 1888 P.G. Taglialatela scoprì nel coutente archivio parrocchiale l’atto di morte di Leopardi con la scritta: "munito dei SS. Sacramenti". Che fosse una frase stereotipa, buttata lì per abitudine è da escludersi, perché nel medesimo registro spesso manca tale annotazione e perché è redatto con particolareggiata esattezza di nomi e di circostanze.
Il fatto è dunque da ritenersi sicuro.
Qui sorge spontanea una domanda. Perché mai il Ranieri si indusse a tale pubblica reticenza, anzi si direbbe a tale menzogna? Il chiarimento del fatto aggiunge nuova conferma alle conferme. Pensò la poetessa Aldina Brunacci Ripamonti a spiegarlo, riferendo una tarda confessione del Ranieri stesso al letterato e magistrato Alessandro Stefanucci Ala: "In confidenza e in segreto ti dirò - così il Ranieri - che Giacomo mi aveva fatto giurare di chiamargli il prete, se lo vedessi in pericolo. E così fu fatto. Ed ebbe il prete e il viatico e tutti i sacramenti". Poi, alla richiesta perché non lo avesse pubblicato, aggiunse: "Fossi stato un minchione! Avrei rovinato presso i liberi pensatori il Leopardi, la cui fama presso di loro era tutta nell’incredulità".
Chi conosce quanto tenga la massoneria a far morire senza sacerdote i suoi vessilliferi e a sfruttare la morte laica delle illustri personalità ai fini della sua propaganda, e pensa all’atmosfera massonica arroventata di quei tempi, e ripensa alle circostanze analoghe viste sopra del Carducci non si meraviglierà di tale preoccupazione del Ranieri. E tanto meno se ne meraviglierà se rifletta all’arrivismo e ai lati poco simpatici di tale uomo, quali risultano specialmente specialmente dai famigerati Sette anni di sodalizio, in cui prende le pose di mecenate e sostenitore del grande, mentre si sa che era povero come lui e si sostenevano a vicenda. Anima insomma tutt’altro che martoriata dagli scrupoli della obiettività storica e tendente a sfruttare, a proprio vantaggio, la grande amicizia. Non privo tuttavia di lealtà quando chiuse nel modo suddetto al padre e non fece mancare il sacerdote al capezzale del poeta.
Fu l’atto più grande e nobile della sua amicizia.”"
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