La morte ha bussato alla vita nel nostro tempo svagato e sfuggente. Avevamo adottato la distanza di sicurezza dalla morte, una lunga distanza che sfumava nell’oblio e nell’occultamento. E invece è venuta a trovarci, virale e impetuosa, costringendoci a rifare i conti con lei. È tempo di parlarne, e questo è il giorno più adatto, perché è il Venerdì Santo.
Al mio paese c’era la tradizione dell’Incontro al Calvario: Gesù Cristo che porta la Croce e incontra sua Madre in un luogo che da noi si chiama proprio Calvario. Una processione gremita, che un tempo si svolgeva in un’atmosfera di raccolto silenzio, interrotto dalla disperazione delle vecchie madri vestite di nero che piangevano in Cristo il loro cristo di casa, il marito, il padre, il figlio morto in guerra. Era un lutto reale, vorrei dire carnale. Le statue ondeggianti, le vesti e i capelli della Madre e del Figlio mossi dall’immancabile vento. Poi diventò negli anni uno spettacolo teatrale, in cui il pathos dell’evento veniva banalizzato dai microfoni che raccontavano in diretta la cronaca della via crucis e ne facevano quasi una docufiction per le tv locali. Quest’anno l’incontro con le folle non ci sarà, perché ora la morte non è un ricordo e un rito ma una presenza, anonima e corale, che si è fatta cronaca quotidiana e si riassume nelle colonne di mezzi militari che portano le bare lontano dai loro cari.
Abbiamo cercato di guardare altrove, in questi giorni, per non vedere in faccia la morte che rubava alla vita e ai suoi cari migliaia di persone, soprattutto ma non solo vecchi e malati. Non c’era discorso collettivo, non c’era telegiornale che non partisse dalla conta dei morti e dei contagiati. Eppure, abbiamo cercato di girarci dall’altra parte, di non pensarci, di ripeterci che la morte non ci riguarda; ascoltiamo quei dati, quelle storie, ma tenendoci alla larga. Gli alibi per tenere lontana la morte li abbiamo usati un po’ tutti, è umanissimo esercizio tentare di esorcizzare la morte. Riparati nei nostri rifugi domestici, ci siamo ripetuti in queste settimane che la morte tocca gli altri, colpisce lontano. Da noi l’ondata è più lieve, da noi i numeri sono bassi. Avevamo dalla nostra il conforto della statistica.
In un paese muore “normalmente” ogni anno l’un per cento della popolazione o poco più. In Italia, per esempio, l’anno scorso sono decedute 640 mila persone. Dunque anche quel numero impressionante di quasi 20mila vittime del coronavirus è ancora una piccola percentuale all’interno di quel numero così imponente, non modifica gli indici di mortalità di una nazione. È vero, anche se quel dato, visto con gli occhi di un lombardo, di un bergamasco, di un bresciano, assume ben altro rilievo, perché le percentuali schizzano molto in alto, per non dire dei morti sommersi; e riguardano amici e conoscenti, per non dire di chi ha perso congiunti. In generale, certo, è un numero esiguo, agli occhi matematici della statistica. E anche il fenomeno mondiale del contagio, se strapperà alla vita trecentomila persone, sarà pur sempre una piccola percentuale rispetto agli otto miliardi di umani viventi nel pianeta.
Ma quando passi dai numeri ai volti, dalle cifre alle persone, dalla lontananza alla prossimità, ti accorgi che non puoi celare quella tragedia con la mascherina della statistica. Sono storie, sono vite, sono persone. E vedere gli ospedali strapieni, sentire di persone morte a casa perché in ospedale non c’era posto per loro, sapere delle stragi nelle case di riposo; sentire le storie che ci vengono raccontate, le vite spezzate, le coppie di anziani che finivano in ospedale e poi andavano via insieme o uno dei due si salvava e l’altro no; quando ponevi attenzione alla fine tremenda di migliaia di persone, l’impossibilità di soccorrerle tutte, allora non c’è esorcismo, non c’è rimozione, non c’è conforto della statistica che possa consolare o lenire la pena. E poi quelle tracce di umanità sui comodini, gli ultimi arnesi della speranza, quei funerali a distanza, fuori dai cancelli cimiteriali…
Di questo funesto periodo che sembra volgere lentamente al declino, resta negli occhi, nella memoria, nel cuore di ciascuno di noi una doppia immagine: la moltitudine dei morti, la solitudine dei morenti. Morire in sequenza, senza avere nessuno accanto, se non la pietà e la premura dei sanitari, è terribile. Suoni a lieve conforto di quelle morti solitarie, che non si muore mai in solitudine, neanche quando si è soli. E non solo perché sai che a distanza qualcuno sta patendo con te, sta piangendo per te. Ma anche perché, come ciascuno di noi sa – lo ha sentito da un morente nel momento fatale o da qualcuno presente al passaggio, a volte perfino da qualcuno che stava morendo e poi è tornato alla vita – quando muore qualcuno c’è un suo caro, suo padre, sua madre, un famigliare, che ti appare nel momento del Passaggio e ti viene a prendere per mano. Una minima consolazione per lui e per noi superstiti. Tuo padre è andato via con sua madre, è venuto a prelevarlo dalla vita, per portarlo all’altra riva. Tu non potevi esserci ma c’era lei. Non è morto da solo, consòlati, c’è chi gli ha dato la mano.
Ero riluttante a parlare di morte in questi giorni; e riluttante è la parola più consona, perché evoca il lutto e la nostra umana voglia di respingerlo. Ora che il peggio forse è passato, la curva comincia a discendere, i guariti crescono insieme alle nostre speranze, è il momento per farlo. Perché oggi, più del due novembre, è il giorno dedicato alla morte, il Venerdì Santo. Dopodomani sarà il giorno della Resurrezione e tornerò a parlarvi, a Dio piacendo, della vita. Mai come quest’anno aspettiamo la Pasqua, benché lontani dall’aria festosa, dalle messe, dagli scambi d’auguri e dal pranzo coi cari, ancora prigionieri delle nostre solitudini. E la Pasqua verrà.
Marcello Veneziani, La Verità 10 aprile 2020
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